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Questo è il primo riferimento, nella Lettera ai Romani, all’amore di Dio come agapē (ἀγάπη), cioè un tipo di amore in cui Dio esce da sé e si dona. Il sostantivo agapē non compare in nessuno scritto greco non biblico che ci sia pervenuto. Tale modo di intendere l’amore è distintivo del NT, dove compare circa 120 volte, di cui 75 nelle lettere di Paolo. Gli scritti greci classici e anche quelli della koinè utilizzavano il termine generico philìa, il termine erōs per l’amore sessuale, il termine storghē per l’amore fra i membri di una famiglia.
Secondo il quarto evangelista, avere la vita non è una conseguenza della risurrezione, ma il suo presupposto. In questo senso, nel versetto si trovano combinate sia la prospettiva escatologica realizzata – evocata già nel v. 37 con l’espressione “non lo caccerò”, che si riferisce al presente e non alla fine dei tempi – sia quella futura (io lo risusciterò).
Commento alla Liturgia
Commemorazione dei Fedeli Defunti
Prima lettura
Gb 19,1.23-27a
1Giobbe prese a dire: 23Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, 24fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s'incidessero sulla roccia! 25Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! 26Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. 27Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 26(27)
R. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
oppure:
R. Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura? R.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario. R.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto. R.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore. R.
Seconda Lettura
Rm 5,5-11
5La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. 6Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. 7Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. 8Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. 9A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui. 10Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. 11Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Vangelo
Gv 6,37-40
37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
Note
Approfondimenti
Nella predicazione di Paolo, la riconciliazione è il centro del vangelo cristiano, il primo effetto della passione, morte e risurrezione di Cristo.
Il verbo katallassō (καταλλάσσω) è una forma composta del verbo allassō (alterare, cambiare) e del sostantivo allos (altro). Nel senso di “rendere altro”, denota quindi un cambio nelle relazioni o nelle situazioni. Il linguaggio della riconciliazione (katallaghē, καταλλαγή, v. 11) non ha equivalenti in ebraico e in aramaico, in cui vi sono termini che si avvicinano – per il senso di “rappacificare, placare” – prevedendo un qualche atto di restituzione del prevaricatore verso chi ha subito il torto, ma senza comportare un mutamento di rapporti o sentimenti personali.
È stato Paolo a mettere al centro della sua teologia la riconciliazione, probabilmente a partire da qualche testo confessionale dei primi autori cristiani.
Per Paolo, il vangelo cristiano è molto più della “giustificazione”, della “redenzione”, dell’“espiazione”, termini con cui si parlava della salvezza negli ambienti cristiani giudaici. Vi è un aspetto personale e relazionale che Paolo aveva conosciuto soltanto grazie all’incontro con Dio e alla sua personale esperienza. È questo che sceglie di mettere al cuore dell’annuncio cristiano.
Non perduti
Per un giorno. Almeno per un giorno, la morte entra in scena come porzione sacra della nostra avventura di uomini e donne creati a immagine del Dio vivente, eppure segnati dalla tragica ferita del peccato. In questa coraggiosa e necessaria commemorazione liturgica, il ricordo dei defunti, dei parenti e degli amici, dei fratelli e delle sorelle nella fede che hanno segnato con la loro vita la carne della nostra vita, non è soltanto espressione di quel sentimento di affetto che, in ogni tempo e in ogni cultura religiosa, produce il culto dei morti. All’ombra dei santi — festeggiati ieri come una beata schiera — la comunità cristiana commemora tutti i fedeli defunti, chiedendo al Padre di confermare la speranza che il mistero pasquale ha acceso nei nostri cuori: «… che insieme ai nostri fratelli defunti risorgeremo in Cristo a vita nuova» (colletta).
Il giorno dei morti, mentre risveglia nella terra dei nostri affetti il tempo condiviso nell’amore con le persone più care e importanti per la nostra vita, è rilanciato dalla liturgia come occasione di nutrire quella speranza che «non delude», non perché sia rimossa o trasformata l’esperienza dell’inevitabile dolore, ma semplicemente perché «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5) e nel cuore dei nostri amati defunti. L’intima e incrollabile certezza, che palpita nel cuore del sapiente Giobbe, diventa il sommesso grido di preghiera che la comunità cristiana rivolge con fiducia al suo Signore:
«Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio» (Gb 19,25-26).
Il ricordo dei nostri cari scomparsi ci conduce inevitabilmente «incontro alla morte» (1Cor 15,31) e al suo potente valore simbolico, capace di intercettare le più nascoste paure radicate in noi. Nessun discorso riesce ad attenuare il volto temibile di questo destino che tutti ci attende e che ai nostri occhi non può che presentarsi come un invincibile avversario. Nonostante la fiducia in Dio e nelle sue promesse, l’ascolto della Parola e le preghiere, la morte rimane anche per i credenti un evento oscuro e tragico, di fronte al quale non possiamo che riconoscerci «soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,15). Eppure non è tanto la morte ad atterrirci, quanto la sofferenza che la prepara e l’accompagna; soprattutto la coscienza che le cose vissute e toccate insieme a coloro che abbiamo amato possano e debbano svanire all’improvviso in modo irreversibile. Infatti la morte non è soltanto un verbo che si declina al futuro, quando anche noi dovremo lasciare questo mondo, ma anche al presente. In infiniti modi e in molteplici occasioni ci accade di morire a noi stessi, a quello che speravamo, ai progetti che avevamo faticosamente imbastito.
Il vangelo però — cioè la memoria di quanto Gesù ha detto e fatto per noi e per la nostra salvezza — è capace di consegnare al nostro cuore una grande parola di speranza:
«Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40).
Il Signore Gesù non ha eliminato né la morte né la sofferenza dall’esperienza umana. Ha invece aggiunto un’altra formidabile possibilità, quella della risurrezione, evento impensabile e impossibile ai nostri cuori «ancora deboli» (Rm 5,6) e fragili. Perché in Dio c’è un unico, indubitabile desiderio: che nessun uomo si «perda» (Gv 6,39) nella disperazione e nella solitudine. E se già le promesse sanno infondere una certa consolazione, Dio ha voluto dimostrare «il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Questo è l’evento che accende una grandiosa luce nelle tenebre del nostro scoraggiamento, che sostiene il ricordo talvolta ancora afflitto per la perdita dei nostri cari defunti. Mossi da questa speranza, noi oggi facciamo memoria del fatto che, in Cristo, niente e nessuno può essere perduto. E trasformiamo ricordi, nostalgie e sentimenti in una viva speranza; nella dolce e fiduciosa attesa della «pasqua eterna», in una «dimora di luce e di pace» (preghiera dopo la comunione) per tutti.
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