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Il termine aparchē (ἀπαρχή), che designa il primo frutto della terra, richiama con ogni probabilità le prescrizioni cultuali della Legge mosaica secondo cui il sabato successivo alla Pasqua si doveva sacrificare al Signore il primo covone come segno dell’offerta dell’intero raccolto (cf. Lv 23,10-11). Definire il Risorto come “primizia” significa che la sua risurrezione non solo precede quella di tutti i cristiani, ma ne è anche la causa e il modello.
Letteralmente, “nel proprio ordine”: questa unica occorrenza neotestamentaria del termine tagma (τάγμα) – derivante dal verbo tassō (τάσσω) che significa “mettere in ordine” – significa appunto ciò che è ordinato o l’ordine in sé. Paolo utilizza qui la concezione corporativa del capo, bene attestata nella letteratura biblica, per descrivere il legame infrangibile tra Cristo e i cristiani. Come i progenitori formano una realtà unica con i loro discendenti, così il legame tra il Risorto e chi crede in lui non si infrange nemmeno con la morte, ma tutti sono destinati a risorgere.
“La fine” della storia è espressa qui con il termine telos (τέλος), che indica anche “il fine”, il fatto che Cristo porterà a termine la sua missione, sconfiggendo persino la morte.
Nella cultura egiziana, la destra rappresentava la parte più prestigiosa, nella cultura araba i giuramenti si fanno con la mano destra, e nella Bibbia il luogo più importante è alla destra del re o di Dio. La destra è associata alla fortuna, a ciò che è giusto e forte, come la mano destra di YHWH, mentre la sinistra implica difficoltà e presagi negativi.
Probabilmente Matteo fa riferimento qui alla tradizione giudaica di Abram che dà ospitalità ai tre stranieri (cf. Gen 18,1-22). Secondo il midrash, offre loro da mangiare nonostante fosse convalescente per la sua circoncisione. Per questo suo gesto, Israele è salvato da Dio. Con questa descrizione e con le altre che seguono, Gesù, il Figlio dell’uomo, si raffigura come un uomo bisognoso di aiuto, e solo al v. 40 si apprende che questo stesso uomo è il “re”.
Commento alla Liturgia
Cristo Re
Prima lettura
Ez 34,11-12.15-17
11Perché così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. 12Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. 15Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. 16Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. 17A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 22(23)
R. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce. R.
Rinfranca l'anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome. R.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. R.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. R.
Seconda Lettura
1Cor 15,20-26.28
20Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. 21Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. 22Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. 23Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. 24Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. 25È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. 26L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, 28E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
Vangelo
Mt 25,31-46
31Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi". 37Allora i giusti gli risponderanno: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?". 40E il re risponderà loro: "In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato". 44Anch'essi allora risponderanno: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?". 45Allora egli risponderà loro: "In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me". 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna".
Note
Approfondimenti
Utilizzando il termine ethnos (ἔθνος), Matteo distingue tra popolo di Dio (cioè Israele) e popoli pagani, come facevano già la Bibbia ebraica e la tradizione giudaica. Mentre laos (λαός) indica in Matteo il popolo santo di Dio (in ebraico ‘am), ethnos al plurale significa popolo con un’accezione nazionalistica, come nazione di pagani (in ebraico gōyyim).
Questa distinzione tra “pagani” e “popolo di Dio” è importante per l’esegesi di questo passo poiché, anche tra quanti – fuori da Israele – non sono stati raggiunti dal messaggio di Cristo oppure lo hanno rifiutato, vi sono dei giusti che si salveranno grazie agli atti d’amore che avranno compiuto verso gli ebrei credenti in Gesù Messia, i suoi “fratelli”, ovvero i “cristiani”.
Letteralmente, “fondazione” (katabolē, καταβολή). L’espressione semitica “dalla fondazione del mondo” può implicare due concetti:
Più piccoli
Presumibilmente stanco di vedere il suo popolo disperso e smarrito, desolato nel vedere i suoi pastori più preoccupati di se stessi che degli altri, il Signore, già nei tempi antichi, non ha resistito a formulare un’impegnativa promessa:
«Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna [...] Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio» (Ez 34,11.15).
La ripetizione con enfasi di quel pronome personale può essere una grande consolazione per ciascuno di noi, che così spesso ci sentiamo un po’ in balia della nostra debolezza e delle circostanze, come pecore che non sanno bene in che direzione marciare. Del resto, il compito di una guida non è nemmeno quello di fare la strada al posto degli altri, ma soltanto di indicarla, infondendo la necessaria fiducia per poterla affrontare con speranza. Questo tipo di regalità non è una funzione svolta solo da chi, nella vita, accetta di assumere una forma di paternità – nella carne o nello spirito – ma da chiunque diventa sensibile nei confronti della piccolezza degli altri a partire da una serena accettazione della propria:
«Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte» (Ez 34,16).
La riflessione che l’apostolo Paolo sviluppa nel capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi offre una singolare occasione di approfondimento di questo tema. In un contesto ecclesiale già segnato dalla tentazione di non avere fiducia nella cosa più importante e decisiva della fede cristiana — il mistero della risurrezione — Paolo ribadisce il punto capitale dell’annuncio evangelico. Condurre gli altri verso la verità non significa porsi di fronte a loro con supponenza o arroganza, ma professare umilmente quanto di più prezioso ha raggiunto e, magari, ferito le profondità del nostro cuore. Tra le forme di attenzione agli altri meno praticate e stimate, anche nel nostro tempo, ci sono alcuni atteggiamenti che la nostra tradizione spirituale ha definito opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori. Paolo non sembra affatto preoccupato di ferire o urtare la sensibilità dei suoi fratelli, quando cerca di consigliare il loro cuore, insegnare alla loro mente quel vangelo di cui non può mai essere sazio chi è disposto a riconoscersi peccatore:
«Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita» (1Cor 15,20-22).
Naturalmente, l’amore per il prossimo resta un movimento con cui ci avviciniamo al mistero della sua vita senza alcuna bramosia di conquista e, soprattutto, senza alcun protagonismo. Ci ricorda tutto questo la grande parabola di Matteo, dove «finisce» ogni facile giudizio con cui siamo sempre tentati di regolare i conti con la realtà. Il fatto che tanto i giusti quanto gli empi, alla fine dei tempi, si troveranno a chiedere al «re» della storia «quando» (Mt 25,37.44) hanno ricevuto l’occasione di servirlo, ci fa capire che la regalità di Cristo diventa la sostanza della nostra umanità quando nemmeno ci rendiamo conto di essere ormai diventati simili a Dio nell’amore. Finché facciamo atti di bontà caricandoli di intenzioni, rischiamo di “usare” l’altro a nostro vantaggio e il bene che possiamo fargli lo facciamo, in realtà, ancora per noi stessi. L’amore capace di toccare ed esprimere il cuore stesso di Dio, invece, sembra essere quello che possiamo compiere con estrema naturalezza, come espressione di una connaturalità raggiunta senza alcun vanto e senza alcuno sforzo. Ciò significa che non saremo giudicati su quanto saremo diventati bravi, ma su quanto saremo diventati noi stessi, sensibili ai «più piccoli» momenti e alle più piccole occasioni di incontrare nei «fratelli» (25,40) il volto del Figlio dell’uomo.
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