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Il testo ricorre al verbo “odiare” (misèō, μισέω): è illusorio credere di poter amare tutto allo stesso tempo. Probabilmente, il verbo “odiare” rispecchia un originale semitico, che esprime con il contrasto ciò che le nostre lingue dicono con il comparativo di preferenza (amare più di…). Qui Luca conserva la carica di verità espressa dall’opposizione affettiva. Non si tratta di allontanare la propria famiglia per far emergere se stessi, ma di passare attraverso il venerdì santo per arrivare alla pasqua: l’odio quindi non è un sentimento, ma un atto, e odiare significa “abbandonare”, separarsi da ciò che sta più a cuore per poi riaverlo in Cristo.
Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine.
Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine.
Il verbo psēphìzō (ψηφίζω), “contare”, deriva dal sostantivo psēphos (ψῆφος), “sassolino”, originariamente utilizzato per contare, come il “calculus” latino da cui deriva l’italiano “calcolare”.
L’espressione erōtà tà pròs eirēnēn (ἐρωτᾷ τὰ πρὸς εἰρήνην), “chiedere le condizioni di pace”, cioè il pagamento di un tributo o la semplice resa, attiene al linguaggio diplomatico e militare, più semitico che greco. Può significare “sottomettersi” oppure “salutare, augurare benessere a qualcuno, rendere omaggio”. In un contesto bellico come questo, deve trattarsi dell’atto di sottomissione.
Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine.
In senso proprio, il verbo apotàssō (ἀποτάσσω) significa “prendere congedo, dire addio”, e in senso figurato “rinunciare, separarsi da”. Si pone qui non un problema esegetico ma etico e teologico: il potere di essere discepolo consiste anzitutto nella rinuncia al potere umano, con un invito paradossale al cristiano a liberarsi dalle sue false sicurezze, cioè i beni, intesi come “falsi appoggi”.
Commento alla Liturgia
Mercoledì della XXXI settimana di Tempo Ordinario
Prima lettura
Fil 2,12-18
12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. 14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 26(27)
R. Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura? R.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario. R.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore. R.
Vangelo
Lc 14,25-33
25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26"Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro". 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Note
Scremare
Non dobbiamo dimenticare il contesto in cui la parola del Signore Gesù viene pronunciata e che l’evangelista Luca esplicita chiaramente: «una folla numerosa andava con Gesù» (Lc 14,25). Dinanzi a quello che, col nostro linguaggio e a partire dalla nostra sensibilità, potremmo definire un successo pastorale, il Signore Gesù sente il bisogno di chiarire quali sono le esigenze della sequela, per evitare malintesi e rettificare i desideri e le attese. Per questo motivo il discorso si fa così duro da sembrare persino eccessivo, fino a suonare come in contraddizione con lo spirito del Vangelo:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (14,26).
Il Signore Gesù davanti alla «folla numerosa», che pende dalle sue labbra e continua a seguirlo sulle strade, sente il bisogno di chiarire le ragioni della sequela mettendone in chiaro le condizioni. Questo lo fa con la folla, ma lo fa persino con il gruppo dei suoi discepoli più intimi, mettendoli persino dinanzi alla possibilità di non seguirlo più (cfr. Gv 6,67). Per arrivare a questo chiarimento interiore, il Signore Gesù cerca di aiutare ciascuno a entrare nel santuario della propria interiorità per scremare, purificare, rettificare i desideri sempre congiunti alle paure che spingono a farsi suoi discepoli.
Per confermare e rincarare la dose di necessità imprescindibile di discernimento, senza il quale nessuna scelta può essere duratura, il Signore ci racconta oggi due parabole. Le immagini della torre da costruire e di un’eventuale guerra in cui avventurarsi sono veramente efficaci per darci la misura del rischio che una sequela non troppo consapevole comporta. Il rischio è di essere ridicolizzati all’esterno e di essere frustrati all’interno del nostro cuore: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro» (14,30). Questa parola, prima ancora di venire dall’esterno, ci abita profondamente dentro nel momento in cui ci rendiamo conto di non essere in grado di ordinare e riordinare continuamente tutti i nostri sentimenti e affetti attorno a un nuovo centro che ha bisogno di essere ri-scelto ogni giorno:
«Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (14,33).
La «propria croce» (14,27) da assumere ogni giorno è proprio questa quotidiana e non facile necessità di rimettere ordine nella nostra vita per orientare al meglio le nostre forze e le nostre energie, cercando di rimettere al centro mai noi stessi e ciò che fortifica il nostro ego, ma la relazione a Cristo che ci permette di rimettere continuamente al centro della nostra vita l’attenzione agli altri. L’apostolo Paolo ci ricorda che
«È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (Fil 2,13).
Il Signore Dio non è contrario all’amore, tutt’altro, ma ci richiede ogni giorno di rifondare il nostro amore perché sia più vero. Vi è nell’apostolo una punta di soddisfazione:
«Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato» (2,16).
La stessa soddisfazione che potremmo provare noi stessi davanti a una torre portata a compimento o a una guerra conclusa con una vittoria. Perché questo avvenga è necessaria una buona dose di disciplina e di ascesi: l’amore ha, infatti, il suo rigore!
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