Commento alla Liturgia

Mercoledì della XXXI settimana di Tempo Ordinario

Prima lettura

Fil 2,12-18

12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. 14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.

Vangelo

Lc 14,25-33

25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26"Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro". 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Commento alla Liturgia

Non si improvvisa

Roberto Pasolini

Ogni giorno ci dedichiamo a tante cose. Innumerevoli sono i fronti nei quali siamo chiamati a frazionare pensieri e sparpagliare energie. Molte di queste cose sono in effetti necessarie, richieste dalla vita stessa e dalla cultura in cui siamo inseriti. Altre — ammettiamolo — sono la risposta a bisogni fasulli che il nostro cuore si è convinto di avere, ad aspettative che altri — non certo Dio — hanno su di noi. San Paolo ha una proposta dirompente, originale, tutta da ascoltare, per rimettere a fuoco per cosa vale la pena vivere e morire. La sua voce invita i discepoli di Cristo a dedicarsi a una cosa che rischia di restare facilmente fuori dalle nostre pianificazioni.

«Miei cari [...] dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore» (Fil 2,12)

In realtà, il verbo «salvare» lo coniughiamo in diverse occasioni tutti i giorni, soprattutto nelle procedure con cui «registriamo» immagini, canzoni, testi sui nostri dispositivi digitali. L’esortazione dell’apostolo, però, ci fa volare più in alto. C’è qualcosa a cui conviene dedicarsi che non coincide con il salvataggio — sempre temporaneo — di qualche istantanea gioia scoperta nel viaggio della vita. Dobbiamo ricordarci di chiamare salvezza quell’attenzione estrema a una vita secondo il vangelo che — solo — può dare pace e pienezza al nostro cuore a caccia di infinite risposte. 

«Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33)

Sembra (solo) categorico Gesù, del dire queste parole. Quasi eccessivo, nell’indicarci come necessaria una misura così radicale e lontana dalle nostre vite, sempre inclini al compromesso e alle mezze misure. Invece il Signore ci sta soltanto restituendo il punto di partenza: la rinuncia al possesso non come irraggiungibile traguardo, ma come realistica origine di nuovi passi di vita. Lui stesso — che è il vero Re e il sapiente Costruttore — si è esposto all’apparente fallimento della croce, per mostrarci che l’amore vince a mani nude e povere. È dura da ammettere, ma il cammino dei discepoli ci espone a una battaglia dove possiamo crescere e avanzare solo nella misura in cui siamo disposti a credere alla forza delle Beatitudini. Dedicarsi a questo santo combattimento è assicurare salvezza ai nostri giorni. Senza ingenuità. Perché la fede in Dio è un dono. Accade, certo. Ma non si improvvisa.

«Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? [...] Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?» (14,28.31)

Cerca nei commenti

Il testo ricorre al verbo “odiare” (misèō, μισέω): è illusorio credere di poter amare tutto allo stesso tempo. Probabilmente, il verbo “odiare” rispecchia un originale semitico, che esprime con il contrasto ciò che le nostre lingue dicono con il comparativo di preferenza (amare più di…). Qui Luca conserva la carica di verità espressa dall’opposizione affettiva. Non si tratta di allontanare la propria famiglia per far emergere se stessi, ma di passare attraverso il venerdì santo per arrivare alla pasqua: l’odio quindi non è un sentimento, ma un atto, e odiare significa “abbandonare”, separarsi da ciò che sta più a cuore per poi riaverlo in Cristo. Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine. Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine. Il verbo psēphìzō (ψηφίζω), “contare”, deriva dal sostantivo psēphos (ψῆφος), “sassolino”, originariamente utilizzato per contare, come il “calculus” latino da cui deriva l’italiano “calcolare”. L’espressione erōtà tà pròs eirēnēn (ἐρωτᾷ τὰ πρὸς εἰρήνην), “chiedere le condizioni di pace”, cioè il pagamento di un tributo o la semplice resa, attiene al linguaggio diplomatico e militare, più semitico che greco. Può significare “sottomettersi” oppure “salutare, augurare benessere a qualcuno, rendere omaggio”. In un contesto bellico come questo, deve trattarsi dell’atto di sottomissione. Il testo non parla di “diventare discepolo”, perché così si rischierebbe di pensare che questo divenire possa dipendere da noi. Essere discepolo vuol dire ricevere l’insegnamento di un altro, accettare di essere formato da un altro. Per accettare questo bisogna accettare di rompere con la propria origine. In senso proprio, il verbo apotàssō (ἀποτάσσω) significa “prendere congedo, dire addio”, e in senso figurato “rinunciare, separarsi da”. Si pone qui non un problema esegetico ma etico e teologico: il potere di essere discepolo consiste anzitutto nella rinuncia al potere umano, con un invito paradossale al cristiano a liberarsi dalle sue false sicurezze, cioè i beni, intesi come “falsi appoggi”.

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