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Termine utilizzato nel Nuovo Testamento nelle sue molteplici sfumature, παρρησία (parresìa) riguarda anzitutto un modo di parlare, un uso del linguaggio caratterizzato da semplicità, chiarezza, franchezza, che non camuffa e non nasconde il pensiero. Può indicare anche ciò che avviene apertamente, in pubblico. Qui descrive l’audacia, la fiducia in se stessi, il coraggio che accompagnano quella relazione con Dio che chiamiamo fede. Si potrebbe tradurre anche “con cuore gioioso”, per indicare il sentimento di confidenza in Colui che solo sa quando e come venire in nostro aiuto.
Commento alla Liturgia
Sabato della I settimana di Tempo Ordinario
Prima lettura
Eb 4,12-16
12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto. 14Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. 15Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. 16Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 18(19)
R. Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice. R.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi. R.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti. R.
Ti siano gradite le parole della mia bocca;
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore. R.
Vangelo
Mc 2,13-17
13Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e lo seguì. 15Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: "Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?". 17Udito questo, Gesù disse loro: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori".
Note
Piena fiducia
Il pubblicano Levi, inaspettatamente convocato da Gesù a «prendere parte» (Eb 4,15) all’esperienza del discepolato, con tutta probabilità sarebbe pronto a sottoscrivere la forte affermazione della lettera agli Ebrei circa la potenza nascosta nel Verbo di Dio:
«Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
Se questa robusta descrizione, di come la parola di Dio sia in grado di distruggere e (ri)edificare il mistero della nostra umanità, può essere riferita a ogni evento in cui lo Spirito Santo agisce e trasfigura la realtà, la sua applicazione alla vocazione di Matteo è davvero sorprendente. Anzi, potremmo anche dire che è la chiave necessaria per non fraintendere il gesto di un uomo ancora immerso nei suoi peccati, come se un atto eclatante possa essere il segno di quella “svolta” radicale che né Dio desidera, né la nostra umanità è in grado di compiere una volta per tutte:
«Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì» (Mc 2,13).
L’immediata adesione all’invito di Gesù non deve essere apprezzata tanto come la capacità di prendere improvvisamente la vita e gettarla in una nuova direzione, conforme e gradita allo sguardo di Dio. Questa aspettativa di cambiamento brusco e definitivo, con cui spesso ci illudiamo di poter stare meglio e di progredire affrancandoci da ferite e difetti, è incompatibile con il criterio dell’Incarnazione. Del resto, il cammino di Matteo/Levi e degli altri discepoli — secondo la concorde narrazione dei quattro vangeli — ci impedisce di credere che la conversione al vangelo possa realmente esprimere il suo profilo migliore all’inizio della sequela Christi, ma sia piuttosto da intendere come il frutto di un graduale e sofferto cammino di resa alla grazia di Dio.
La tempestività con cui Levi risponde all’appello di Gesù va colta, dunque, soprattutto come la capacità di intuire il tempo favorevole del passaggio di Dio e di approfittarne, senza paura e senza esitazioni, così come l’autore dell’epistola invita a fare:
«Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16).
La “straordinaria” adesione di Levi alle prerogative del vangelo è l’occasione di verificare quanto siamo disposti ad accettare che, al di là dei legittimi ruoli e delle infinite maschere con cui procediamo nel viaggio della vita, nulla di ciò che in realtà siamo «possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto» (4,13). Papa Francesco, nell’ultimo anno giubilare, ha voluto ricordare proprio ai sacerdoti l’importanza di saper rimanere in contatto con questa povertà interiore in cui avviene l’incontro con la misericordia del Padre: «E ognuno di noi può cercare o lasciarsi portare a quel punto dove si sente più miserabile. Ognuno di noi ha il suo segreto di miseria dentro… Bisogna chiedere la grazia di trovarlo» (Ritiro spirituale guidato dal Santo Padre Francesco in occasione del giubileo dei sacerdoti, prima meditazione, Basilica di san Giovanni in Laterano, 2 giugno 2016). Bisogna però anche mantenere «ferma» (Eb 4,14) e piena la fiducia nell’Incarnazione del Verbo, e non dimenticare che il motivo per cui siamo in fuga da noi stessi — la nostra irriducibile e adorabile povertà — è il medesimo motivo per cui Dio non si stanca di cercarci e trovarci:
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17).
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