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Con la parola parrēsia (παρρησία) si intende il coraggio di parlare apertamente e pubblicamente, di esporsi con chiarezza e con franchezza, senza nascondere nulla di quello che si è o si pensa. Si tratta di un sostantivo che descrive anzitutto la capacità di parlare senza esitazioni e, in seconda battuta, di esporsi con coraggio nelle relazioni con tutte le inevitabili implicazioni.
L'aggettivo prosphatos (πρόσφατος) indica qualcosa di “fresco", di nuovo nel senso di “non ancora esistente”, quindi "inedito", mai avvenuto o visto prima.
Il cuore sincero a cui si fa riferimento è un cuore alēthinos (ἀληθινός), che potremmo tradurre con «autentico», «genuino», «non nascosto». Non si tratta dunque di una perfezione ideale o di un'integrità morale, ma della sincerità di potersi mostrare per come si è, con le proprie luci e le proprie ombre.
Il verbo greco katanoeō (κατανοέω) può essere tradotto come «notiamoci», «capiamoci», «consideriamoci». Il richiamo, dunque, è a un fare attenzione gli uni agli altri mosso dall'amore e da una profonda empatia.
Nel testo greco non c'è un verbo, ma un sostantivo: paroxysmos (παροξυσμός). Il suo significato è interessante, perché significa «provocazione», «irritazione», «stato di disagio». Con questo termine, carico di sfumature apparentemente sconvenienti, l'autore descrive gli effetti auspicabili di un'attenzione reciproca all'interno della comunità, in vista di una conversione alle opere di bene.
Commento alla Liturgia
Giovedì della III settimana di Tempo Ordinario
Prima lettura
Eb 10,19-25
19Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, 21e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, 22accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. 24Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. 25Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l'abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore.
Vangelo
Mc 4,21-25
21Diceva loro: "Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? 22Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. 23Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!". 24Diceva loro: "Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più. 25Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha".
Note
Piena libertà
Le parole del vangelo di oggi sono meno semplici di quanto appaiono. Certo, l’immagine di una lampada che non può avere altro destino se non quello di illuminare è confortante, la sua simbologia estremamente semplice da riferire alla vita. Il Signore Gesù — la sua parola e la sua azione in noi — sarebbe dunque come una luce che, nonostante le difficoltà e gli ostacoli che incontra nei nostri terreni inospitali e ribelli, è destinata a brillare e a essere riconosciuta.
«Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro?» (Mc 4,21).
Allora perché vengono prospettate situazioni tanto assurde, come quella di una lampada che finisce sotto un vaso, con la certezza di spegnersi? O addirittura sotto un letto, con il rischio persino di generare un incendio domestico? Chi di noi arriverebbe a compiere azioni tanto sconsiderate? Se il Maestro ce ne parla, la risposta, purtroppo, è abbastanza semplice: perché proprio noi ci ritroviamo continuamente a compiere sciocchezze se non uguali, molto simili.
Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più. Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha» (Mc 4,24-25).
L’esortazione è intrigante. Letteralmente risuona così: «Guardate ciò che ascoltate». I due sensi — quello della vista e quello dell’udito — sono chiamati a cooperare per una migliore e più autentica esperienza di obbedienza al Dio che ci parla. Gesù sembra dire che non è sufficiente ascoltare, ma è necessario gettare gli occhi dentro il nostro orecchio, per vedere e valutare quale parola sta scivolando nel nostro cuore per poi dirigere i passi della nostra vita. Altrimenti rischiamo di essere spettatori immobili di un magnifico paesaggio e quella stupenda libertà che abbiamo ricevuto nel battesimo — la possibilità di accostarci a Dio ed entrare nella sua pienezza di vita — si trasforma in una misura di consolazione con cui ci chiudiamo in noi stessi, anziché una forza con cui consegnarci profumati e felici all’avventura del vivere, morire e risorgere.
«Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura» (Eb 10,19-22).
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