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Letteralmente, “petra” (πέτρᾳ) significa “roccia”, non “pietra” (traduzione del termine “lithos”). Gli studiosi hanno molto discusso su cosa sia questa roccia su cui la Chiesa di Gesù è fondata, e che non coincide con Gesù stesso. In Oriente, come base per la Chiesa si considera la fede di Pietro, manifestata nell’atto della confessione. In Occidente, si considera la persona di Pietro, al quale Gesù ha partecipato il suo potere e la sua autorità.
Il termine ekklēsìa (ἐκκλησία) appare nei vangeli solo in Matteo (qui e in 18,17). Deriva da ek + kalèō, cioè “chiamare fuori da”, quindi alla lettera significa “assemblea” e presume l’ebraico qāhāl. In ebraico, l’espressione “l’assemblea di YHWH” indica la schiera dei fedeli alla fine dei tempi.
Gesù affida a Pietro un’autorità, mentre nel libro dell’Apocalisse è il Risorto a possedere le chiavi della morte. Il discepolo non è investito, quindi, di un’autorità assoluta, ma relativa al regno presente, in cui Dio già è operante. Se lo sfondo di questa autorità è la figura di Eliakìm (Is 22,22), il potere di Pietro sarebbe quello di “aprire e chiudere” – cioè consentire – l’accesso al Regno, per esempio facendo discepoli mediante la predicazione. Nella Bibbia le chiavi sono anche un simbolo della conoscenza, non solo del potere. Secondo le parole di Gesù, tuttavia, si tratta del potere di “legare e sciogliere”.
Commento alla Liturgia
Cattedra di S. Pietro
Prima lettura
1Pt 5,1-4
1Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: 2pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, 3non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. 4E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 22 (23)
R. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l'anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome. R.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza. R.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. R.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. R.
Vangelo
Mt 16,13-19
13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?". 14Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti". 15Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". 16Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". 17E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli".
Note
Approfondimenti
Alla lettera, il testo dice “le porte dell’Ade”, un’espressione semitica che il lettore di Matteo doveva conoscere, sebbene difficile da definire perché l’evangelista la usa solo due volte (qui e in 11,23). Le porte sono metonimia per “città”, perché nell’antichità abbattere le porte significava aver conquistato la città, e quindi simboleggiano l’intero regno dei morti.
Il greco “hadēs” (ᾅδης) traduce nella Settanta l’ebraico “še’ôl” e indica solo una parte degli inferi, senza identificarsi con essi: un luogo indistinto per tutti i defunti, un luogo solo per i destinati alla risurrezione, un luogo dove sono puniti i malvagi, un luogo dei morti e di quanto sta sotto terra contrapposto al regno dei viventi sulla terra.
L’espressione “legare e sciogliere” è un’endiadi che non si trova nella Settanta, ma solo nella letteratura rabbinica. Tuttavia, ritorna nel cap. 18 di Matteo, a indicare un potere conferito a tutta la comunità. Nella storia dell’interpretazione, sono state avanzate 5 ipotesi principali sulla natura di questo potere:
1. Un potere di esorcismo;
2. Il potere dei rabbi di sciogliere dai voti;
3. Il potere di perdonare e non perdonare;
4. Il potere di infliggere o togliere una scomunica;
5. Il potere degli scribi di interpretare la Torah, stabilendo le azioni proibite e quelle lecite.
L’interpretazione prevalente per questo versetto è quest’ultima, quella di un potere dottrinale, didattico, secondo la nuova ermeneutica di Gesù: la carità fraterna, la “giustizia più grande”.
Custodi di misericordia
Nell’anno giubilare della misericordia, papa Francesco ha voluto ricollocare al centro della vita della Chiesa la misericordia divina, non tanto come arricchimento di una vita cristiana sempre a rischio di essere mediocre o sbiadita, ma come prima responsabilità battesimale che il corpo di Cristo è tenuto a incarnare in ogni tempo e in ogni luogo:
«Siamo chiamati ad essere i collaboratori di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova. Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza. Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile. Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarietà si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella di agire secondo il cuore di Cristo» (Omelia per la celebrazione eucaristica, 22 febbraio 2016).
Le parole con cui il santo Padre ha celebrato la festa della cattedra di Pietro ci ricordano cosa sia veramente «essenziale» da cogliere nella memoria liturgica odierna, senza scivolare nel fascino che la gestione di un «potere» è sempre in grado di suscitare:
«A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19).
Nel giorno in cui tutte le comunità cristiane sono invitate a saper riconoscere nella sede di Roma il punto di riferimento e di garanzia per la propria fede nel Vangelo, non va dimenticato che l’unico potere ricevuto dall’apostolo Pietro quando, mosso dallo Spirito, ha potuto riconoscere in Gesù di Nazaret «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,16), non può mai tradursi in un’autorità tesa a disciplinare la libertà umana, ma in un servizio rivolto a custodire la libertà di Dio che, attraverso le «sofferenze di Cristo», desidera rendere tutta l’umanità «partecipe della gloria che deve manifestarsi» (1Pt 5,1). Non dovrebbe mai sfuggire dalla nostra memoria il fatto che quella «pietra» (Mt 16,18) solida e sicura su cui «Simone, figlio di Giona» (16,17) ha ricevuto la promessa delle «chiavi del regno dei cieli» (16,19) è un luogo dove «né carne né sangue» (16,17) conferiscono il diritto di essere e di poter rimanere. Pietro stesso dovrà compiere un doloroso cammino di purificazione davanti alla misericordia di Cristo, per poter diventare un autentico modello «del gregge» (1Pt 5,3) capace di «confermare i fratelli» (cf. Lc 22,32) nell’unica speranza del Vangelo e della vita nuova in Cristo.
I discepoli del Signore risorto sparsi per il mondo possono giustamente essere lieti di avere nel vescovo di Roma un visibile punto di riferimento per la propria fede e un segno di unità con ogni assemblea che confessa la fede nel Vangelo. Tuttavia non devono dimenticare che
«non senza ragione è stato consegnato a uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti» (san Leone Magno)
cioè che tale autorità non può mai identificarsi con la gestione di un privilegio, ma con la custodia della misericordia. Quella misericordia che Pietro, primo tra gli apostoli, ha avuto la grazia di sperimentare attraverso l’azione dello Spirito. Del resto, ciò che impedisce persino alle «potenze degli inferi» (Mt 16,18) di far vacillare la cattedra di Pietro è solo la fedeltà di Dio che promana dal mistero pasquale e abilita ogni cristiano a interpretare la propria esistenza come un generoso servizio da realizzare «non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio» (1Pt 5,2), e a porsi di fronte al mistero dell’altro – con la sua differenza e la sua unicità – «non come padroni» (5,3), ma come collaboratori di gioia (cf 2Cor 1,24).
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