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Commento alla Liturgia
Sabato Santo
Silenziosamente
Le parole di un’antica omelia, resa celebre dalla sua ricezione nell’ufficio delle letture, ci introducono con grande intensità nella sommessa grazia del Sabato Santo: «Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi». Il silenzio è il più adeguato sottofondo musicale e liturgico al mistero che la chiesa celebra in questo santo giorno, incastonato tra la morte del Signore Gesù sulla croce e la sua risurrezione dal sepolcro.
Nei confronti del silenzio nutriamo sentimenti contrastanti. Tante volte lo desideriamo e lo cerchiamo disperatamente. Un po’ per fuggire dal caos e dai rumori di una vita frenetica, nella quale perdiamo facilmente il ruolo di protagonisti per diventare frustrate e agitate comparse. Molto più per il desiderio di raggiungere un livello più profondo di percezione delle cose, di contatto con noi stessi, di vicinanza a Dio. Nel principio della creazione, al momento in cui si sprofonda nella quiete e nel silenzio dell’inattività è riservato un posto d’onore, a cui il Signore Dio per nessun motivo sembra disposto a rinunciare:
«Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (Gen 2,2-3).
Il settimo giorno, quando la creazione raggiunge un vertice di bellezza e di verità, è benedetto da Dio e consacrato proprio a motivo della totale assenza di lavoro. La stessa grazia è nascosta e custodita dal Sabato Santo, autentico “centro” del triduo pasquale perché in esso non si celebra un’opera di Dio, ma la rinuncia alla necessità di dover aggiungere il sigillo di un’ultima, ulteriore opera a quanto già vissuto e offerto con infinito amore. Forse la difficoltà che tutti sperimentiamo, nel nostro tempo, a cessare da ogni lavoro si radica proprio in un sottile imbarazzo di fronte al compito della libertà. Affastelliamo e accumuliamo ogni sorta di cose, impegni e occasioni perché, in fondo, in nessuna cosa sentiamo di poterci — e doverci — regalare fino in fondo. Siamo senza riposo perché non portiamo a termine — nell’amore — nessuna delle cose che facciamo. Nel mistero del Sabato Santo siamo invitati a riscoprire quanta attività possa sgorgare dai momenti in cui, dopo aver fatto tutto ciò che potevamo, accettiamo di rimanere inermi perché pieni di speranza in ciò che abbiamo potuto vivere:
«Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua» (1Pt 3,18-19).
Mentre il corpo del Signore ha accettato di restare prigioniero del sepolcro e della morte, il suo spirito ha potuto andare — libero e lieto — a visitare coloro che, ancora schiavi del peccato, erano in attesa di salvezza. Questo è il frutto dell’amore che sa andare fino in fondo e, poi, si scopre capace di restare fermo e tranquillo nel riposo: la forza di saper riprendere sempre il cammino verso gli altri, per offrire e condividere la gioia di essere (stati) salvati. Senza alcun vanto. Senza alcun timore. Silenziosamente.
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