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Commento alla Liturgia
Sabato Santo
Convertire... ripassare
La liturgia non ha più parole e per questo ci invita al silenzio per imparare dai sassi, come esortava - verso la fine della sua vita e portando nel suo corpo le stigmate del crocifisso - Francesco d’Assisi perso nella foresta della Verna. Davanti alla «gran pietra sulla porta del sepolcro» (Mt 27,60) sembra che non ci sia più niente da dire ma anche più nulla da fare. Giuseppe d’Arimatea pare aver terminato il suo compito di «discepolo» (27,57), peraltro assolto con coraggio e con grande devozione fino alla fine ma, evidentemente, non potendo fare altro, «se ne andò» (27,60). Nel vangelo secondo Matteo il ruolo di quella pietra diventa ancora più centrale a motivo della preoccupazione e del timore dei notabili del popolo i quali, ossessionati dai loro stessi fantasmi,
«andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia» (Mt 27,66).
Solo così sembra che tutto possa realmente riprendere il suo consueto cammino come se nulla fosse successo.
Cosa dire davanti a tutto questo accanimento per rendere la morte del Signore incontrovertibile? Durante tutta la quaresima – giorno dopo giorno – abbiamo attinto una parola dalla Parola. Oggi, invece, rimane muta e attonita. Dove trovare la parola chiave? Dove cercare la chiave per dare parola ai sentimenti? Nessuna preghiera sembra possibile se non quella espressa con le lacrime e il silenzio, il silenzio e le lacrime. Sostando come le donne «davanti al sepolcro» (27,61) siamo come confrontati con lo stesso Silenzio in cui il Verbo del Padre si è annichilito e annientato proprio come «chicco di grano caduto in terra» (Gv 12,28). Là, davanti al sepolcro del Signore Gesù, che giace e che tace dietro la pietra così accuratamente posta sul suo amabile corpo e sulla sua dolcissima anima, anche noi siamo chiamati a scendere nel profondo di noi stessi e della stessa umanità per imparare a non scandalizzarci più del silenzio di Dio ma a trovare in esso conforto proprio perché: «il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua peccaminosità e della sua angoscia, non è di chi tace perché non c’è, o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange, e tace appunto per piangere» (L. PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 221).
Abituati a lamentarci, e talora a bestemmiare, il silenzio e l’apparente distanza di Dio dalle nostre vicissitudini e dai nostri dolori, siamo oggi invitati alla più grande conversione che si possa immaginare. Siamo invitati a riconoscere il Dio di Gesù Cristo, la cui onnipotenza è la consegna di sé fino all’estremo e la cui protesta è una parola d’amore che si fa gesto in una vita totalmente consegnata e abbandonata nelle nostre mani e affidata, ormai, alla nostra capacità e volontà di vivere e morire nello stesso amore. Possiamo pregare, sperare, attendere e amare con le stesse parole che concludono la Passione secondo Matteo di Bach: «Anche se il mio cuore è immerso nelle lacrime perché Gesù prende congedo da me, il suo testamento mi dà gioia: egli lascia nelle mie mani un tesoro senza prezzo, la sua carne e il suo sangue…. Voglio donarti il mio cuore perché tu vi discenda, mio Salvatore! Voglio sprofondarmi in te! Se il mondo è per te troppo piccolo, allora tu solo devi essere per me più del mondo e più del cielo».
Come le donne e soprattutto come Maria, la madre del Signore, in questo giorno vogliamo ripassare, nel nostro cuore reso ancora più attento, ogni gesto, ogni parola, ogni non detto del Signore Gesù e persino ciò che sta, come messaggio nascosto, tra gli spazi bianchi e le interlinee vuote dell’anima.
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