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Troviamo qui una coppia antitetica di verbi: endēmeō (ἐνδημέω) e ekdēmeō (ἐκδημέω), dove il primo evoca “essere a casa”, mentre il secondo “essere lontano da casa”.
Troviamo qui una coppia antitetica di verbi: endēmeō (ἐνδημέω) e ekdēmeō (ἐκδημέω), dove il primo evoca “essere a casa”, mentre il secondo “essere lontano da casa”. Qui Paolo non intende contrapporre corpo e anima, ma l’esistenza attuale a quella futura: l’esilio non è dalla vita corporea in quanto tale ma dall’esistenza mortale, vissuta nella separazione spaziale e temporale dal Signore, nell’attesa di ricevere il corpo dei risorti, il corpo “spirituale” (cf. 1Cor 15,44). Il verbo philotimèomai (φιλοτιμέομαι) alla lettera significa “amare l’onore” e nella Bibbia è usato solo da Paolo per evocare quella che, nel suo pensiero, dovrebbe essere la profonda aspirazione dei credenti: essere graditi a Dio, cioè appartenergli nella fedeltà. Il termine drepanon (δρέπανον) ricorre 7 volte nel NT, di cui solo una in Mc e le altre in Ap 14,14-19, dove il riferimento biblico è Gl 4,13-14:in entrambi i casi, il contesto evoca il momento in cui sarà resa giustizia agli oppressi. Il riferimento alle scritture profetiche, quindi, conferisce a questa frase una evidente dimensione escatologica: Gesù esprime la sua fede e la sua speranza che Dio condurrà a buon fine ciò che ha cominciato a realizzare attraverso di lui. Nella concezione e nel tempo di Marco, questo significa che tutte le tappe della storia della salvezza sono inscritte nel disegno di Dio. L’immagine degli uccelli, ripresa da Dn 4, Ez 17 e 19, Sal 103(104), evoca risonanze escatologiche ma anche riferimenti alla creazione. La prospettiva di Marco è che la storia sia tesa verso il ricongiungimento del mondo di Dio con il mondo degli umani: questo movimento degli uccelli che finalmente “possono” ripararsi all’ombra di questo grande albero, nato da un seme piccolissimo, è il pensiero audace del Maestro. Si tratta di una formula solenne (elalei autois ton logon, ἐλάλει αὐτοῖς τὸν λόγον) con cui Marco esprime l’essenziale: dicendo la Parola, Gesù proclama la venuta del Regno di Dio nella storia (cf. 2,2). Le parabole sono al servizio di questa fondamentale comunicazione.
In questo caso, il verbo dunamai (δύναμαι) non esprime la sfumatura della “capacità” di fare qualcosa, ma quella della “responsabilità”, nel senso che la possibilità di ascoltare dipende dalla disponibilità ad accogliere la parola della fede. Troviamo il verbo dunamai con la stessa sfumatura di significato, per esempio, in Gv 6,60: “Questa parola è dura. Chi può ascoltarla?".
Troviamo qui una coppia antitetica di verbi: endēmeō (ἐνδημέω) e ekdēmeō (ἐκδημέω), dove il primo evoca “essere a casa”, mentre il secondo “essere lontano da casa”. Qui Paolo non intende contrapporre corpo e anima, ma l’esistenza attuale a quella futura: l’esilio non è dalla vita corporea in quanto tale ma dall’esistenza mortale, vissuta nella separazione spaziale e temporale dal Signore, nell’attesa di ricevere il corpo dei risorti, il corpo “spirituale” (cf. 1Cor 15,44). Il verbo philotimèomai (φιλοτιμέομαι) alla lettera significa “amare l’onore” e nella Bibbia è usato solo da Paolo per evocare quella che, nel suo pensiero, dovrebbe essere la profonda aspirazione dei credenti: essere graditi a Dio, cioè appartenergli nella fedeltà. Il termine drepanon (δρέπανον) ricorre 7 volte nel NT, di cui solo una in Mc e le altre in Ap 14,14-19, dove il riferimento biblico è Gl 4,13-14:in entrambi i casi, il contesto evoca il momento in cui sarà resa giustizia agli oppressi. Il riferimento alle scritture profetiche, quindi, conferisce a questa frase una evidente dimensione escatologica: Gesù esprime la sua fede e la sua speranza che Dio condurrà a buon fine ciò che ha cominciato a realizzare attraverso di lui. Nella concezione e nel tempo di Marco, questo significa che tutte le tappe della storia della salvezza sono inscritte nel disegno di Dio. L’immagine degli uccelli, ripresa da Dn 4, Ez 17 e 19, Sal 103(104), evoca risonanze escatologiche ma anche riferimenti alla creazione. La prospettiva di Marco è che la storia sia tesa verso il ricongiungimento del mondo di Dio con il mondo degli umani: questo movimento degli uccelli che finalmente “possono” ripararsi all’ombra di questo grande albero, nato da un seme piccolissimo, è il pensiero audace del Maestro. Si tratta di una formula solenne (elalei autois ton logon, ἐλάλει αὐτοῖς τὸν λόγον) con cui Marco esprime l’essenziale: dicendo la Parola, Gesù proclama la venuta del Regno di Dio nella storia (cf. 2,2). Le parabole sono al servizio di questa fondamentale comunicazione.
In questo caso, il verbo dunamai (δύναμαι) non esprime la sfumatura della “capacità” di fare qualcosa, ma quella della “responsabilità”, nel senso che la possibilità di ascoltare dipende dalla disponibilità ad accogliere la parola della fede. Troviamo il verbo dunamai con la stessa sfumatura di significato, per esempio, in Gv 6,60: “Questa parola è dura. Chi può ascoltarla?".
Commento alla Liturgia
XI Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Ez 17,22-24
22Così dice il Signore Dio: Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; 23lo pianterò sul monte alto d'Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all'ombra dei suoi rami riposerà. 24Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l'albero alto e innalzo l'albero basso, faccio seccare l'albero verde e germogliare l'albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò".
Salmo Responsoriale
Dal Sal 91(92)
R. È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte. R.
Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio. R.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità. R.
Seconda Lettura
2Cor 5,6-10
6Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - 7camminiamo infatti nella fede e non nella visione -, 8siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. 9Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. 10Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
Vangelo
Mc 4,26-34
26Diceva: "Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura". 30Diceva: "A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra". 33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Note
Fiducia
Siamo noi, proprio noi, ciascuno di noi e tutti noi insieme la parabola più bella e la più efficace che ogni giorno il Signore Gesù racconta a noi stessi e al mondo per dare speranza a tutti. Siamo noi quel «ramoscello» (Ez 17,22) e siamo noi il «seme» (Mc 4,26) qualunque che viene fatto cadere nella terra. Eppure, di ciascuno di noi il Signore ama dire che:
«dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come egli stesso non lo sa» (Mc 4,27).
Siamo ancora noi come quel «granello di senape» con cui condividiamo l’essere «il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno» (4,31). Eppure, quel seme diviene, col tempo e con la pazienza, «più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (4,32). Il Vangelo di questa domenica si conclude con una sorta di ulteriore apertura, che lascia molte cose in sospeso e ci rimanda a noi stessi:
«Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere» (Mc 4,33).
La nostra vita è chiamata a diventare una parabola che siamo chiamati a rileggere e a meditare ogni mattina, per far sì che il nostro cuore possa diventare sempre più accogliente.
Per questo ogni mattina dobbiamo anche riscegliere di accogliere la vita degli altri come una parabola rivolta a noi e che ci richiama a percorrere generosamente un altro pezzo di strada nel cammino di conversione, che non si esaurisce mai in un semplice processo di perfezione personale, ma comporta sempre una crescente accoglienza reciproca. Siamo noi, indubbiamente, che stiamo crescendo «spontaneamente» e in modo armonico, tanto da produrre prima «lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (4,28). Il Signore apre il nostro cuore alla meraviglia dandoci la possibilità di guardare a noi stessi con stupore e gratitudine, come una madre che contempla il crescere sereno del proprio figlio; come l’agricoltore che ogni mattina ammira il rigoglioso progresso dei suoi semi ormai diventati piante; l’allevatore che vede incrementarsi il suo gregge con cui condivide i giorni e le notti nelle solitudini e nelle fatiche. Il Signore apre anche i nostri occhi perché siano capaci di rendersi conto anche del cammino degli altri, che a loro volta e forse in un modo diverso dal nostro, ma non meno bello e meno vero, sono a loro volta in crescita.
L’apostolo Paolo sembra riassumere tutto questo in una sola intensa parola:
«sempre pieni di fiducia» (2Cor 5,6).
Nel contesto della seconda lettura, questa fiducia riguarda il desiderio di «abitare presso il Signore» (5,8). Ma il nostro cammino verso l’eternità è scandito dai gradi di crescita nel tempo del nostro «esilio» (5,6), che diventa l’ambito più adeguato della nostra maturazione, per essere capaci di ricevere la «ricompensa» (5,10). Essa non sarà una sorta di premio o di risarcimento, bensì la comprensione finale e luminosa di tutte le «parabole» (Mc 4,33) non spiegate perché interamente e appassionatamente vissute. È meraviglioso vedere come e quanto il Signore Gesù conosca bene la nostra terra… il modo di seminare e di piantare per talea o per seminagione. Siamo responsabili della nostra crescita come della crescita degli altri e dobbiamo portare nel cuore la certezza che possiamo anche impedirla come si può bloccare la crescita di un prato calpestandolo: fiducia e rispetto sono inseparabili e necessari.
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