Commento alla Liturgia

Martedì della XXX settimana di Tempo Ordinario

Prima lettura

Rm 8,18-25

18Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. 19L'ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. 20La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità - non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha sottoposta - nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. 23Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? 25Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.

Salmo Responsoriale

Dal Sal 125 (126)

R. Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia. R.
 
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia. R.
 
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia. R.
 
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni. R.

Vangelo

Lc 13,18-21

18Diceva dunque: "A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? 19È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami ". 20E disse ancora: "A che cosa posso paragonare il regno di Dio? 21È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata".

Commento alla Liturgia

(Im)paragonabile

Roberto Pasolini

La liturgia di oggi sembra sprigionare un corto circuito tra le letture. Il Signore Gesù e l’apostolo Paolo appaiono in disaccordo nel reciproco tentativo di illustrare il mistero del Regno e annunciare la futura gloria che attende i figli di Dio. Da parte sua, il Maestro Gesù trae spunto dalla natura e dalla realtà quotidiana per descrivere lo sviluppo del vangelo nella storia, il dipanarsi del mistero di Dio e del nostro in una misteriosa sinergia.

«A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape [...] È simile al lievito [...]» (Lc 13,18-19.20).

Viceversa, Paolo, continuando a parlare della vita nuova dei (c)redenti nello Spirito di Dio, avverte di non essere più in grado di sottoporre ad alcun paragone l’esperienza che, nel tempo presente, viviamo come discepoli di Cristo. Quello che un giorno si dovrà rivelare in ciascuno di noi e, più in generale, nel grande scenario della creazione, è un mistero di gloria indicibile e splendido.

«Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18).

In realtà, i due punti di vista non sono in contrapposizione, ma si compenetrano a vicenda. Mentre Gesù coglie maggiormente la continuità esistente tra il presente e il futuro, Paolo preferisce sottolineare la forte rottura che separa le circostanze in cui ci troviamo a vivere — e a patire — e la condizione futura di cui faremo esperienza, quando il Padre avrà portato a compimento il nostro processo di adozione e la sua manifestazione di amore incondizionato. Un giorno che, nella speranza, possiamo già intravedere all’orizzonte. 

«Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,22-23).

Molte sofferenze e gemiti che ci attraversano trovano senso solo nella prospettiva della vita eterna, cioè di quella realtà che si manifesterà pienamente quando tutto ciò che siamo — e che siamo stati — sarà immerso nel mistero della Risurrezione. Per il momento dobbiamo ammettere che a noi sembra di essere, talvolta, solo molto piccoli, come un granello, altre volte, invece, di sentirci persi e sparpagliati, come lievito dentro la farina. La parola di Dio non ci dona la fosforescenza che ci manca per sentirci vivi, apprezzati, speciali. Visita il nostro cuore con un altro regalo: la speranza, che rende la nostra attesa ardente, ci insegna a essere perseveranti, infonde nel nostro cuore la promessa che arriverà presto il giorno in cui la nostra bocca sarà riempita «di sorriso». Non per qualche ora soltanto. Per sempre.

«Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25).

Cerca nei commenti

Il termine axios (ἄξιος), generalmente usato per cose, significa “di pregio analogo”, “di pari valore”. Qui il termine, preceduto dalla negazione, indica l’irrilevanza di tutto quanto i cristiani patiscono in Gesù in quanto fallibili o in quanto testimoni del Vangelo, rispetto alle promesse di Dio che in loro si manifesteranno. Il sostantivo apokaradokìa (ἀποκαραδοκία), che significa “attesa ansiosa”, non è stato trovato in nessun testo greco pervenuto anteriore a Paolo (mentre il verbo relativo compare in scritti greci classici del V e VI sec. a.C.). Paolo se ne serve nelle sue lettere in due casi: qui e in Fil 1,20, in entrambi i casi in associazione con il sostantivo “speranza” (elpis, ἐλπίς), il che fa pensare che nella sua visione il termine sia connotato nel senso positivo di un’attesa fiduciosa. Nel testo originale il verbo tradotto con «mescolare» trae origine da una radice che significa «nascondere dentro» (ἐγκρύπτω). Il destino del lievito è dunque quello di accettare un nascondimento perché una interezza si possa manifestare. L'aggettivo (ὅλος) significa «intero», «completo», «esteso». Non denota solo una totalità, ma anche un'integrità, una pienezza e una unità profonda.

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