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Il verbo odēghèō (ὁδηγέω), in cui risuona il termine “strada” (odòs, ὁδός), può unire le idee di “correggere” e di “istruire”. Nella versione greca della Bibbia ebraica (Settanta) è utilizzato sia nel significato originario di Dio che guida il suo popolo attraverso il deserto (cf. Dt 1,33), sia nel senso figurato dell’istruzione nella giustizia e nella fede (cf. Sal 85/86,11). Per Luca, diventare cristiano significa emergere dalle tenebre, e questo esige la formazione spirituale di ogni credente.
Il verbo katartìzō (καταρτίζω) appartiene al linguaggio marinaresco (equipaggiare una nave), della politica e della medicina, nel senso di “rendere qualcosa/qualcuno come deve essere”, quasi “restaurare, riparare”. Qui si tratta della “formazione” del discepolo nella fede cristiana, sia sul piano dottrinale che sul piano pratico. Ciò che interessa a Luca non è tanto che il discepolo diventi come il suo maestro per poter a sua volta insegnare, quanto l’analogia “etica” con Gesù e la sua opera di salvezza: diventare simili al maestro è possibile solo attraverso il rapporto di fede con lui.
Commento alla Liturgia
VIII Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Sir 27,5-8
5I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. 6Il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. 7Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini. 8Se cerchi la giustizia, la raggiungerai e te ne rivestirai come di un manto di gloria*.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 91 (92)
R. È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte. R.
Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio. R.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c'è malvagità. R.
Seconda Lettura
1Cor 15,54-58
54Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria. 55Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? 56Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. 57Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! 58Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Vangelo
Lc 6,39-45
39Disse loro anche una parabola: "Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? 40Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. 41Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? 42Come puoi dire al tuo fratello: "Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio", mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello. 43Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d'altronde albero cattivo che produca un frutto buono. 44Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. 45L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Note
Comprendere
La preghiera di colletta, scelta dalla liturgia per questa domenica, ci lascia intuire come sia necessario un discernimento se vogliamo non solo «amare i nostri fratelli» ma anche «comprendere» il mistero della loro vita senza mai diventarne, anche inconsapevolmente, «giudici presuntuosi e cattivi». In effetti è un rischio grande e non così infrequente quello in cui cadiamo quando cerchiamo di aiutare il nostro prossimo dimenticandoci di rimanere, al contempo, attenti e sensibili anche al nostro costante bisogno di essere aiutati:
«Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio» (Lc 6,42).
Il Signore Gesù non vuole denunciare quelle forme di carità così affettate da squalificarsi sul nascere come goffi e sterili tentativi di apparire generosi, ma ricordare a tutti come sia possibile camminare verso l’altro senza rendersi conto di quanta strada verso se stessi ci sia ancora da fare:
«… mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?» (Mc 6,42).
Il rischio di mettersi accanto all’altro con un atteggiamento di superiorità è quella forma di cecità che, altrove nel vangelo, Gesù denuncia come la forma di peccato più grave e difficilmente guaribile: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,41).
Del resto, la riflessione del Siracide è piuttosto illuminante sull’argomento:
«I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo» (Sir 27,6).
A dispetto delle apparenze, molto spesso incantevoli e convincenti, solo il momento della «prova» – quando crollano tutte le inevitabili impalcature – rivela quale sia il vero fondamento di una cosa o di una persona. Per quanto riguarda l’uomo, in particolare, è proprio il suo modo di ragionare più che il suo modo di agire a qualificarne l’esistenza. Sono infatti le intenzioni – e le ragioni – a esprimere la bontà e l’integrità di un’azione, non semplicemente la sua veste esteriore. Per questo il sapiente conclude la sua riflessione indicando l’importanza delle parole per rivelare il significato profondo di un modo di agire:
«Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore» (Sir 27,7).
Il Signore Gesù, nel vangelo, si spinge ancora più in là, radicalizzando questo ineludibile legame tra l’albero e i suoi frutti: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono» (Lc 6,43). La parola utilizzata dall’evangelista Luca per indicare la fruttuosità incapace di esprimere la bontà dell’albero è, letteralmente, l’aggettivo «guasto, rotto, rovinato».
Senza attenuare il dramma di un frutto che non giunge a felice maturazione, questa sfumatura semantica ci ricorda che un frutto cattivo non proviene da un seme diverso da quello buono, ma è «semplicemente» un frutto che non è riuscito a maturare nel modo corretto, cioè a diventare pienamente se stesso. L’insegnamento di Gesù acquista anche un respiro molto liberante, quando ricorda che i frutti non si possono, ma soprattutto non si devono, improvvisare perché sono il lento e incessante emergere della qualità e della specie di un albero. Per questo siamo tutti liberi di non doverci né segnalare né manifestare con aggressività agli occhi degli altri, dal momento che
«ogni albero si riconosce» – naturalmente – «dal suo frutto» (Lc 6,44).
L’unica attenzione da avere con ogni slancio di desiderio e di volontà è quella di saper riempire il cuore di pensieri buoni e di parole vere, perché da esso scaturisce la linfa della nostra fecondità. È il mistero della radice della nostra anima, chiamata a imparare l’arte di custodire qualcosa – anzi qualcuno – più grande di noi, dalla cui presenza dipende il fallimento o il compimento di tutta la vita:
«L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male» (Lc 6,45).
Se coltivare l’albero spetta al Signore (cf. Gv 15), consentire al nostro cuore di ricevere la vita vera spetta a noi, sapendo che questa fatica «non è vana nel Signore» (1Cor 15,58).
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