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Il termine aparchē (ἀπαρχή), che designa il primo frutto della terra, richiama con ogni probabilità le prescrizioni cultuali della Legge mosaica secondo cui il sabato successivo alla Pasqua si doveva sacrificare al Signore il primo covone come segno dell’offerta dell’intero raccolto (cf. Lv 23,10-11). Definire il Risorto come “primizia” significa che la sua risurrezione non solo precede quella di tutti i cristiani, ma ne è anche la causa e il modello.
Letteralmente, il termine ptōchòs (πτωχός) significa “colui che si rannicchia, si nasconde” e, per estensione, “povero, mendicante, umile”. Luca lo usa in senso concreto, descrivendo i discepoli di Gesù come poveri o diventati poveri. Probabilmente, Luca si rivolge a una comunità di benestanti, per i quali il tema della povertà come verifica del rapporto con Dio è cruciale. Secondo una possibile interpretazione, Luca intende qui la prontezza a lasciare tutto.
Con il verbo chortàzō (χορτάζω) si intende anzitutto l’atto di “nutrire il bestiame”, anche se nel Nuovo Testamento non è usato in questo senso e comunque non assume un significato degradante. Richiama, semmai, il tema veterotestamentario di Dio che nutre e sazia i poveri (cf. Sal 36/37, 19), per esplicitare che la felicità non si fonda sulla fame – materiale o religiosa – ma sull’intervento salvifico di Dio. In altre parole, la sazietà non si può ridurre a una compensazione, perché la promessa è quella di un rapporto nuovo con Dio.
Le manifestazioni di gioia sono parte integrante degli oracoli profetici di salvezza. Il verbo skirtàō (σκιρτάω) non è nuovo nel Vangelo di Luca: nel senso di “balzare, saltare di gioia” lo abbiamo già incontrato in 1,41.44, quando Giovanni sobbalza nel grembo di Elisabetta, indicando proprio un movimento fisico di gioia.
Il verbo apèchō (ἀπέχω) è un termine tecnico del linguaggio commerciale: significa “siete stati pagati”, avete già ricevuto il vostro salario pieno e avete firmato una ricevuta. Qui il lamento si rivolge a chi ritiene di aver ottenuto, attraverso i propri possessi, la felicità, la consolazione escatologica.
Commento alla Liturgia
VI Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Ger 17,5-8
5"Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. 6Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. 7Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. 8È come un albero piantato lungo un corso d'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell'anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 1
R. Beato l'uomo che confida nel Signore.
Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte. R.
È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene. R.
Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio
né i peccatori nell’assemblea dei giusti,
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina. R.
Seconda Lettura
1Cor 15,12.16-20
12Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? 16Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. 20Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
Vangelo
Lc 6,17.20-26
17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: "Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. 22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. 24Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. 25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
Note
Quale consolazione?
Gesù,
«disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante» (Lc 6,17).
Quello che in Matteo è il discorso della montagna, in Luca diviene il discorso della pianura. Mentre in Matteo Gesù «sale», in Luca «discende». Ecco due prospettive differenti, ma non alternative. Vanno tenute insieme in una complementarietà necessaria alla nostra fede. La parola di Dio scende verso di noi per innalzarci a quella perfezione dell’amore di cui Luca ci narrerà nei versetti che seguono, quando Gesù solleciterà i discepoli a essere misericordiosi come misericordioso è il Padre. È possibile giungere a questa misura dell’amore perché c’è una parola che scende verso di noi, per offrirci, a noi che l’ascoltiamo con docilità e l’accogliamo con fede, quella possibilità che altrimenti non avremmo, se ponessimo nella carne il nostro sostegno, come ammonisce Geremia. La logica delle beatitudini ci annuncia questo atteggiamento. Se è maledetto l’uomo che confida nell’uomo, beato è l’uomo che confida in Dio, riconoscendo che egli scende nella «pianura» della nostra povertà, della nostra fame, della nostra afflizione e persecuzione. Fondare la nostra fede in Cristo risorto, perché non sia vana, significa consentire alla sua risurrezione di scendere nella nostra povertà mortale per farci salire alla qualità nuova della sua vita risorta.
In questo incontro tra il nostro desiderio di felicità e il mistero di Dio che scende verso di noi per accoglierlo e compierlo, sorprende il presente che ricorre tanto nella prima beatitudine quanto nel primo guai:
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio»; «ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» (Lc 6,20.24).
Nel parallelismo, anche temporale, tra queste due affermazioni, entrambe al presente, il regno di Dio corrisponde alla consolazione che i ricchi già posseggono. L’alternativa che si profila sembra dunque questa: tra l’atteggiamento di chi attende la sua consolazione dall’agire di Dio nella storia e nella propria vita (che Gesù definisce «regno», in quanto è l’agire sovrano e compassionevole con cui Dio si prende cura dei suoi figli, soprattutto dei suoi poveri), e quello di coloro che cercano di darsi da sé la propria consolazione. Ritroviamo la stessa alternativa che nella prima lettura ci viene suggerita dal profeta Geremia:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… benedetto l’uomo che confida nel Signore» (Ger 17,5.7).
In chi cerchiamo consolazione, in Dio o in noi stessi?
La «nostra consolazione», quella che già possediamo perché tentiamo di darcela da soli confidando nell’uomo, cioè in noi stessi, è anche una consolazione a misura del nostro bisogno, del nostro desiderio, spesso piccolo, angusto, limitato. La consolazione che viene da Dio è a misura del suo desiderio e appaga il nostro bisogno, ci dona la gioia desiderata, ma anzitutto allarga lo spazio del nostro cuore, della nostra immaginazione, del nostro desiderio, per condurli alla sua misura, e così ricolmarli in modo di gran lunga maggiore rispetto a ciò che potremmo fare con i nostri sforzi. Occorre accettare di abbandonare la «nostra consolazione» per aprirci a un’attesa, quella di accogliere la consolazione che viene da Dio. Anche per questo a essere beati sono coloro che hanno fame e però non si accontentano di saziarsi di un pane che posso procurarsi da soli, ma attendono il pane di Dio, che sazierà la loro fame anzitutto accrescendola, per renderla capace di accogliere e contenere il suo dono sempre più grande rispetto alla nostra immaginazione, e anche al nostro bisogno. Come Gesù ricorda in un altro passo del vangelo di Luca, il nostro rischio è di non riconoscere il vino nuovo del Regno perché ci accontentiamo del nostro vino vecchio, e troviamo in esso – già! – la nostra consolazione, senza riconoscere che ciò che ci viene promesso, e che dobbiamo attendere con fiducia, è di gran lunga migliore (cf. Lc 5,38-39).
La beatitudine del regno ci chiede di accettare una mancanza e di viverla nell’attesa, nella speranza, nella fiducia, tutti atteggiamenti che già pregustano e vivono la gioia di ciò che ci sarà donato.
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