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Il presente del verbo hēgeomai (ἡγέομαι) assume qui un valore “continuativo”, per evidenziare che la scelta compiuta da Paolo nell’incontro con il Risorto non riguarda solo il passato né semplicemente continua ad avere i suoi effetti nel presente, ma è destinata a crescere fino a coinvolgere gradualmente tutta la sua esistenza.
Soltanto in questo versetto in tutto il greco biblico si trova il participio presente di un verbo, in questo caso huperechō (ὑπερέχω), con valore di sostantivo. Si tratta della “superiorità” in senso qualitativo di quanto Paolo ha iniziato e continua a conoscere di Cristo. Questa conoscenza è da comprendersi sullo sfondo di tutta la tradizione biblico-giudaica, che riguarda l’amore e i legami più profondi di comunione e appartenenza.
In questo versetto troviamo un paradosso: dal guadagno alla perdita e dal perdere (zēmioō, ζημιόω) al guadagnare. Paolo non sta deprezzando quanto di bello e buono c’è nella vita umana, ma sta valutando tutto a partire dall’inestimabile valore della conoscenza di Cristo. D’altra parte, nel suo personale incontro con il Risorto, Paolo ha perso tutto il suo sistema di pensiero e di valutazione.
La congiunzione “e” assume qui un valore esplicativo: “guadagnare” Cristo significa “essere trovato” da Dio in lui. Si potrebbe tradurre: “per guadagnare Cristo, cioè essere trovato in lui”. Paolo mette così al bando ogni volontarismo nella relazione con Cristo, per essere trovati da lui in qualunque condizione ci si trovi.
Qui si vede un’inversione dell’ordine usuale: prima le sofferenze di Cristo, poi la sua risurrezione. Questo procedimento retorico evidenzia che Paolo, come ogni credente, prima ha fatto esperienza del Signore nella sua forza di Risorto, poi ha compiuto il percorso a ritroso che lo ha portato a interrogarsi sul valore della sua morte in croce. Di fatto, secondo Paolo, la comunione alle sofferenze di Cristo è condizione per conoscerlo fino a partecipare della risurrezione dai morti.
Il verbo summorphizō (συμμορφίζω) è assente nel greco biblico, e non è improbabile che sia stato coniato da Paolo in connessione con altri verbi composti dal prefisso sun- tipici del suo vocabolario. Nel richiamare la “forma” di Cristo, Paolo propone così il linguaggio della metamorfosi, che caratterizza le sue lettere, mentre nel resto del NT è utilizzato solo a proposito della trasfigurazione di Gesù. Nella concezione di Paolo, si tratta di una trasformazione continua dei credenti, che giunge al culmine solo con la risurrezione dai morti.
Nell’epistolario paolino, il verbo teleioō (τελειόω) compare solo qui al perfetto passivo, per cui andrebbe reso con “non sono stato reso perfetto”. Non è chiaro rispetto a che cosa Paolo non sia ancora giunto alla perfezione: si potrebbe pensare che la meta a cui si riferisce sia la risurrezione, ma Paolo non la considera come qualcosa da ottenere. Piuttosto, Paolo si riferisce a tutto il percorso della vita, al suo intero rapporto con Cristo: dalla conoscenza di Cristo fino alla conformazione alla sua morte come condizione per partecipare alla risurrezione.
Il termine grammateis (γραμματεῖς) ricorre solo qui in tutto il quarto Vangelo, mentre nei sinottici lo si trova spesso in coppia con i farisei. In realtà, gli scribi facevano generalmente parte dei farisei, tanto che questo vangelo, al di fuori di questo passo in cui troviamo molti termini non usuali per il vocabolario di Giovanni, non li distingue. Nel cap. 8, Giovanni utilizza diffusamente un lessico giuridico. Anche il verbo katagràphō (καταγράφω) ne fa parte. Pur potendo assumere il senso di “tracciare segni successivi” come enumerazione, più probabilmente significa “scrivere un’accusa”. Secondo alcune interpretazioni, katagràphō è il verbo usato dalla Bibbia dei Settanta per tradurre Es 31,18, quando Dio scrive col dito le prime tavole della legge. Il semplice gràphō (γράφω), invece, qui utilizzato al v. 8, compare nella Settanta in Es 34,1.27-28, per la seconda scrittura delle “dieci parole”, dopo l’episodio del vitello d’oro.
In questo versetto troviamo un paradosso: dal guadagno alla perdita e dal perdere (zēmioō, ζημιόω) al guadagnare. Paolo non sta deprezzando quanto di bello e buono c’è nella vita umana, ma sta valutando tutto a partire dall’inestimabile valore della conoscenza di Cristo. D’altra parte, nel suo personale incontro con il Risorto, Paolo ha perso tutto il suo sistema di pensiero e di valutazione.
La congiunzione “e” assume qui un valore esplicativo: “guadagnare” Cristo significa “essere trovato” da Dio in lui. Si potrebbe tradurre: “per guadagnare Cristo, cioè essere trovato in lui”. Paolo mette così al bando ogni volontarismo nella relazione con Cristo, per essere trovati da lui in qualunque condizione ci si trovi.
Qui si vede un’inversione dell’ordine usuale: prima le sofferenze di Cristo, poi la sua risurrezione. Questo procedimento retorico evidenzia che Paolo, come ogni credente, prima ha fatto esperienza del Signore nella sua forza di Risorto, poi ha compiuto il percorso a ritroso che lo ha portato a interrogarsi sul valore della sua morte in croce. Di fatto, secondo Paolo, la comunione alle sofferenze di Cristo è condizione per conoscerlo fino a partecipare della risurrezione dai morti.
Il verbo summorphizō (συμμορφίζω) è assente nel greco biblico, e non è improbabile che sia stato coniato da Paolo in connessione con altri verbi composti dal prefisso sun- tipici del suo vocabolario. Nel richiamare la “forma” di Cristo, Paolo propone così il linguaggio della metamorfosi, che caratterizza le sue lettere, mentre nel resto del NT è utilizzato solo a proposito della trasfigurazione di Gesù. Nella concezione di Paolo, si tratta di una trasformazione continua dei credenti, che giunge al culmine solo con la risurrezione dai morti.
Nell’epistolario paolino, il verbo teleioō (τελειόω) compare solo qui al perfetto passivo, per cui andrebbe reso con “non sono stato reso perfetto”. Non è chiaro rispetto a che cosa Paolo non sia ancora giunto alla perfezione: si potrebbe pensare che la meta a cui si riferisce sia la risurrezione, ma Paolo non la considera come qualcosa da ottenere. Piuttosto, Paolo si riferisce a tutto il percorso della vita, al suo intero rapporto con Cristo: dalla conoscenza di Cristo fino alla conformazione alla sua morte come condizione per partecipare alla risurrezione.
Il termine grammateis (γραμματεῖς) ricorre solo qui in tutto il quarto Vangelo, mentre nei sinottici lo si trova spesso in coppia con i farisei. In realtà, gli scribi facevano generalmente parte dei farisei, tanto che questo vangelo, al di fuori di questo passo in cui troviamo molti termini non usuali per il vocabolario di Giovanni, non li distingue. Nel cap. 8, Giovanni utilizza diffusamente un lessico giuridico. Anche il verbo katagràphō (καταγράφω) ne fa parte. Pur potendo assumere il senso di “tracciare segni successivi” come enumerazione, più probabilmente significa “scrivere un’accusa”. Secondo alcune interpretazioni, katagràphō è il verbo usato dalla Bibbia dei Settanta per tradurre Es 31,18, quando Dio scrive col dito le prime tavole della legge. Il semplice gràphō (γράφω), invece, qui utilizzato al v. 8, compare nella Settanta in Es 34,1.27-28, per la seconda scrittura delle “dieci parole”, dopo l’episodio del vitello d’oro.
Commento alla Liturgia
V Domenica di Quaresima
Prima lettura
Is 43,16-21
16Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, 17che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: 18"Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! 19Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. 20Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. 21Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 125 (126)
R. Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia. R.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia. R.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia. R.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni. R.
Seconda Lettura
Fil 3,8-14
8Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo 9ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: 10perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, 11nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 12Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. 13Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, 14corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Vangelo
Gv 8,1-11
1Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". 11Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".
Note
Convertire... l'innocenza
Hanno ben ragione questi farisei di voler incriminare questa donna sorpresa in flagrante adulterio; hanno ragione di incriminare Gesù che si oppone all’applicazione della Legge, e infine lo condanneranno secondo «la Legge» (Fil 3,9), ma contro il cuore della Legge. Davanti alla spianata del Tempio è come se si facessero le prove generali del processo e della condanna di Gesù stesso: al centro vi è il mistero dell’umanità misera che accoglie la misericordia divina. Tutta la scena è dominata dal grande silenzio di questa donna, che sa bene di essere colpevole e non dice una sola parola per giustificarsi. Ella attende la condanna o la misericordia come qualcosa che non dipende da se stessa. Icona meravigliosa della nostra umana, originale innocenza, che non può che confidare nella misericordia perché, nel profondo, non ha altra speranza. Il Signore Gesù partecipa di questo silenzio e, in questo silenzio di fondo, vivrà la sua stessa Passione durante la quale, alle brevi parole che dirà, accompagnerà un grande silenzio di attesa… fino alla consumazione di tutto.
Il Signore Gesù sa e insegna che solo dal cuore può nascere la comprensione e l’assoluzione, non dalla prova dei fatti. Infatti, nei fatti tutti siamo peccatori, nel cuore tutti possiamo reciprocamente ridonarci l’innocenza originale: «La sola cosa importante e decisiva che potrebbe capitarci, è quella di trovarci sotto lo sguardo di Gesù Cristo. Ciò che infatti dobbiamo veramente temere, non è l’inferno dei nostri spaventi e delle nostre fantasmagorie – questo inferno è così carnale da essere ridicolo – ma l’innocente nudità dello sguardo di Gesù Cristo, il verdetto di questa Luce che attraversa la nostra vita e a cui rischiamo di sottrarci ogni volta in cui ci crediamo giusti, cedendo così alla volontà di potenza: l’occhio nudo di Cristo ci giudica» (F. CASSINGENA-TREVEDY, Sermons aux oiseaux, Solesmes, Genève, p. 219).
Il Signore, con il suo chinarsi a terra per scrivere nella polvere, capovolge la situazione: non ci sono dei giusti al cospetto di una peccatrice o una peccatrice davanti a dei giusti. Ci sono, invece, delle persone al cospetto di altre persone chiamate a riconoscersi, ad accogliersi, ad accompagnarsi verso l’innocenza che è frutto dell’amore e non si trova dietro di noi come qualcosa che avremmo perso, ma come una realtà verso cui ci dirigiamo, una realtà che, da dono smarrito, si fa dono riconosciuto come risposta alla supplica divina:
«Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (Is 43,18).
In realtà nell’altro, differente da me, trovo me stesso e l’altro come me! Con quella parola «va’ e non peccare più» (Gv 8,11), il Signore ripone la nostra umanità sul solco proprio del suo cammino sempre possibile, come quello proposto ad Abramo e che forse avrebbe voluto proporre ad Adamo nel Giardino, se gliene avesse dato la possibilità. In verità, solo il perdono permette al peccatore di andare più in là del proprio peccato, per ritrovare la propria innocenza sempre nel futuro e non nel passato. Allora non ci resta che fare nostre le parole e il desiderio dell’apostolo: «corro» (Fil 3,14)!
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