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Luca è l’unico, fra gli autori del Nuovo Testamento, a descrivere l’epilogo della vita di Gesù mediante il verbo analambànō (ἀναλαμβάνω), che significa “essere elevato nell’altezza”, usato dalla Settanta per il rapimento in cielo del profeta Elia. Per i romani, la salita al cielo aveva il significato della divinizzazione degli imperatori, mentre per la fede ebraica quello della riabilitazione del giusto da parte di Dio (Enoc, Elia, Esdra, Baruc). Mentre in questo caso il trasferimento del giusto verso il cielo gli risparmia la morte, in At 1 Gesù viene elevato dal Dio dopo averla attraversata.
40 è un numero biblico, che fissa per lo più una durata simbolica: l’esodo è durato 40 anni (Nm 14,33), Mosè è rimasto 40 giorni sul Sinai per essere istruito nella Legge (Es 24,18), Gesù è stato tentato per 40 giorni nel deserto (Lc 4,2). Per i rabbini, 40 ha il valore simbolico di un tempo di apprendistato completo, e questo ruolo il numero sembra giocare qui: lo spazio di 40 giorni, di cui il racconto dice ben poco, fu un periodo di istruzione degli apostoli da parte del Risorto, e questo insegnamento fu esaustivo, come si vedrà in At 2-6 in cui gli apostoli si mostrano competenti in parole e opere.
Il motivo del Regno, che assimila la predicazione degli apostoli a quella di Gesù, domina tutta la trama degli Atti e ne delinea la posta in gioco. La formula basilèia tou theoû (βασιλεία τοῦ θεοῦ) inaugura un nuovo capitolo della predicazione del Regno, di cui Gesù non è più il proclamatore ma il garante e l’oggetto. È una formula amata da Luca per esprimere il cuore della predicazione di Gesù, ma anche dei discepoli, senza precisare la dimensione presente e/o futura del Regno ma un suo tratto ben preciso: tutto ciò che si può dire della presenza sovrana di Dio nella storia è ormai legato al modo in cui si presenta in Gesù.
Unica occorrenza del verbo sunalìzō (συναλίζω) in tutta la Bibbia, può avere due etimologie diverse: può derivare da “als” (ἅλς), sale, e significare “prendere il sale con qualcuno”, quindi condividere il pasto, oppure da “alēs”, cioè unito, e significare quindi “essere radunato”, anche se in questo caso mancherebbe “con chi”. Il mangiare qui sembra più dimostrativo che conviviale: Luca in ogni caso coltiva il genere del symposium per riaffermare la corporeità del Risorto, l’intimità che condivide con gli apostoli e l’occasione di un dialogo di addio.
A partire dal profeta Malachia, il verbo apokathìstēmi (ἀποκαθίστημι), che significa “restaurare, ristabilire”, è diventato nella Settanta una designazione tecnica per il ristabilimento escatologico del popolo eletto nei suoi diritti e la fine della tirannia degli empi sulla sua terra. Nel Vangelo di Luca, Zaccaria, Maria, Simeone e Anna sono descritti come portatori di questa speranza. La delusione dei discepoli sulla strada di Emmaus denota che un’attesa analoga animava la prima cristianità.
Il termine dùnamis (δύναμις) negli Atti è associato principalmente ai miracoli o comunque alla testimonianza degli apostoli, mentre il Risorto non compie miracoli, bensì insegna (cf. v. 1). La formulazione resta teocentrica: lo Spirito viene da Dio sui credenti, a sottolineare l’alterità del dono che conferirà ai loro gesti e parole l’efficacia di una grazia operante.
A che cosa possano rinviare i “confini della terra” (ἔσχατον τῆς γῆς) è questione controversa: non può riferirsi alla capitale dell’impero se non con un intento polemico mentre, per Luca, Roma sarebbe piuttosto il centro del mondo abitato. Si tratta di una formula stilistica, presente nella Settanta, che in Luca indica “tutte le nazioni”, cioè si riferisce all’evangelizzazione dei non ebrei. Certamente, raggiungere Roma è la garanzia che la Parola si diffonderà da lì a tutto il mondo, un piano che attende il proprio compimento al di fuori del racconto, tanto che il libro degli Atti ne offre solo una realizzazione parziale.
Luca è l’unico, fra gli autori del Nuovo Testamento, a descrivere l’epilogo della vita di Gesù mediante il verbo analambànō (ἀναλαμβάνω), che significa “essere elevato nell’altezza”, usato dalla Settanta per il rapimento in cielo del profeta Elia. Per i romani, la salita al cielo aveva il significato della divinizzazione degli imperatori, mentre per la fede ebraica quello della riabilitazione del giusto da parte di Dio (Enoc, Elia, Esdra, Baruc). Mentre in questo caso il trasferimento del giusto verso il cielo gli risparmia la morte, in At 1 Gesù viene elevato dal Dio dopo averla attraversata.
Con la parola parrēsia (παρρησία) si intende il coraggio di parlare apertamente e pubblicamente, di esporsi con chiarezza e con franchezza, senza nascondere nulla di quello che si è o si pensa. Si tratta di un sostantivo che descrive anzitutto la capacità di parlare senza esitazioni e, in seconda battuta, di esporsi con coraggio nelle relazioni con tutte le inevitabili implicazioni.
L'aggettivo prosphatos (πρόσφατος) indica qualcosa di “fresco", di nuovo nel senso di “non ancora esistente”, quindi "inedito", mai avvenuto o visto prima.
Il cuore sincero a cui si fa riferimento è un cuore alēthinos (ἀληθινός), che potremmo tradurre con «autentico», «genuino», «non nascosto». Non si tratta dunque di una perfezione ideale o di un'integrità morale, ma della sincerità di potersi mostrare per come si è, con le proprie luci e le proprie ombre.
I màrtures (μάρτυρες) non sono ancora i martiri della tarda antichità e non sono testimoni oculari passivi, poiché sono diventati attivamente “servitori della parola” (cf. 1,2). Inoltre, le cose di cui sono testimoni non sono tutte visibili. Questo aspetto rimanda all’uso del termine negli Atti, dove i testimoni sono affidabili perché vincolati a una duplice fedeltà: alla storia perché hanno conosciuto il Gesù storico, e alla verità perché conoscono il kèrigma cristiano e il senso delle Scritture. Di più, hanno bisogno dello Spirito Santo perché la loro testimonianza sia efficace.
Per descrivere l’ascensione, Luca usa qui un verbo diverso da quello degli Atti (analambànō, ἀναλαμβάνω): il verbo meno corrente anaphèrō (ἀναφέρω), che significa “portare, far salire”. Entrambi ricorrono, in questo contesto, nella forma passiva. Marco e Matteo ricorrono alla forma attiva di anaphèrō per descrivere Gesù che conduce i suoi tre discepoli sulla montagna della Trasfigurazione.
Commento alla Liturgia
Ascensione del Signore
Prima lettura
At 1,1-11
1Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi 2fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. 3Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. 4Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l'adempimento della promessa del Padre, "quella - disse - che voi avete udito da me: 5Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo". 6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: "Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?". 7Ma egli rispose: "Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra". 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand'ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro 11e dissero: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo".
Salmo Responsoriale
Dal Sal 46 (47)
R. Ascende il Signore tra canti di gioia.
Oppure:
R. Alleluia, alleluia, alleluia.
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra. R.
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni. R.
Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo. R.
Seconda Lettura
Eb 9,24-28.10,19-23
24Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. 25E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: 26in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. 27E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, 28così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza. 19Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, 21e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, 22accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Vangelo
Lc 24,46-53
46e disse loro: "Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto". 50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Note
Approfondimenti
Letteralmente, “cominciò (archō, ἄρχω) a fare e insegnare”. Il valore dell’aoristo di archō è discusso. Può essere:
La soluzione avverbiale che permette di risalire all’inizio (cf. Lc 1,2) richiama la ricerca lucana dell’esaustività storica. Rispetto al binomio “fare e insegnare”, si può notare la precedenza dell’agire sulla parola, tipica di Luca.
Inoltre, il Risorto non fa miracoli, ma insegna: i miracoli sono riservati alla Chiesa sotto l’azione dello Spirito (cf. v. 8).
Luca si iscrive nella lunga tradizione biblica della benedizione. Si pensi all’ultima benedizione di Mosè in Dt 33: per Luca, prima dell’ultima partenza, Gesù fa suo e attualizza questo gesto ancestrale.
Per come è qui descritto, il gesto di benedire (eulogèō, εὐλογέω) ha un carattere sacerdotale e Luca conferisce al Cristo risorto una funzione liturgica, lasciando intendere che, come un patriarca, benedice i suoi discendenti e, come un sacerdote, benedice l’assemblea riunita.
La benedizione poi è più di una parola: è un gesto performativo che comunica la benevolenza e la protezione divine, che assicura continuità e fedeltà nel momento della partenza o della separazione.
Vi è qui espresso un paradosso: il ritiro e il dono, l’assenza e la presenza. Lungi dal deresponsabilizzare, la benedizione invita i credenti a vivere nel mondo da adulti (cf. At 3,25-26).
Il verbo proskunèō (προσκυνέω) è il gesto di colui che si inchina fino a terra, la reazione attesa davanti a una divinità o al re. I greci lo utilizzano per evocare l’adorazione che offrono ai loro dèi. Nel protocollo dei re di Persia e del Medio Oriente antico, la proskynesis non si limitava a un semplice inchino ma comportava la genuflessione e anche la prosternazione, come indica la frequente presenza del verbo “cadere”.
In questo passo, i discepoli non si prostrano davanti a Dio come chi riceve la benedizione da un sacerdote, ma davanti a Cristo stesso: in seguito alla risurrezione, Gesù ha attraversato la barriera che separa gli uomini da Dio. Finora, infatti, Luca non ha mai parlato di uomini che adorano il Cristo: nel momento dell’ascensione lo fa senza esitare.
Il tuo nome è Benedizione, alleluia!
Il Signore Gesù si separa dai suoi discepoli nell’atto di benedirli e proprio
«Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (Lc 24,51).
Quella del Signore Gesù è una benedizione che mantiene e, nello stesso tempo, trasforma la relazione tra i discepoli e il loro Maestro. Il segno distintivo di questo nuovo modo di comunione sono la gioia e l’adorazione: segni esterni di una vita ormai tutta segnata dalla capacità di benedire e di ringraziare. Il Signore ritorna nel seno del Padre dopo aver rivelato, nel mistero della sua incarnazione, pienamente manifestatosi nel mistero pasquale, quale amore il Padre ha per il mondo di cui noi siamo parte. Il Verbo torna «in cielo» con il nostro corpo preparando così un posto, uno spazio, una possibilità di “essere” - per la nostra umanità - al cuore stesso della vita divina. In tal modo la benedizione delle origini sulla creazione intera oggi raggiunge la sua pienezza e il suo culmine, toccando il cuore delle creature e dando a ciascuno di noi la gioia di poter sperare in un compimento che tocchi l’interezza del nostro essere e la totalità della nostra storia.
Il mistero dell’ascensione suona allora come una vera e urgente chiamata a partecipare del medesimo amore che unisce il Padre e il Figlio ed è continuamente riversato nei nostri cuori con e nella potenza dello Spirito. Si tratta di un amore sufficientemente decentrato da se stesso che consente l’assenza sensibile di Cristo senza renderlo per nulla assente dalla nostra vita, anzi, così tanto presente ed efficace da poter assicurare che ormai
«abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente» (Eb 10,19-20).
Questa certezza interiore di comunione, che si fa partecipazione serena e libera alla stessa vita di Dio, ci permette di rispondere alla benedizione con l’adorazione, che si fa fervida attesa del dono che viene dall’alto e che ci permette di orientare la nostra vita sempre oltre: il dono dello Spirito.
A noi quindi è ora richiesto di rivivere, nella nostra vita, l’esperienza degli apostoli, amando di dimorare nel tempio interiore del nostro cuore per potervi ricevere il dono della vita nuova: di una vita risorta. Al cuore della nostra fede condivisa vi è una certezza che nasce da una promessa:
«Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
La gioia dell’Ascensione è una gioia che libera il cuore perché non lo incatena nemmeno a un’esperienza compiuta di Dio, ma lo spinge verso quell’oltre di cui è rimando il simbolo del «cielo». Non ci è chiesto di distaccarci o disinteressarci della vita quotidiana, ci è semplicemente dato di essere profondamente coinvolti e, allo stesso tempo, profondamente liberi, perché chiaramente orientati così da essere tanto coinvolti, quanto assolutamente distaccati da ogni paura di fallire o di soffrire. L’amore non passa, si invera! A noi è chiesto di essere testimoni della potenza della misericordia e del perdono che abbiamo appreso dalle parole e dai gesti del Maestro e di cui ora, in attesa del suo mite e festoso ritorno, siamo chiamati a essere testimoni possibilmente credibili, ma soprattutto testimoni interessanti, per quella gioia sottile e contagiosa che dovrebbe segnare e contraddistinguere il nostro tratto, tanto da riconoscervi uno sprazzo di cielo… sempre così vicino e così lontano.
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