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La gelosia dei Giudei di Antiochia non deve essere intesa nel senso psicologico di una frustrazione di fronte al successo degli evangelisti cristiani. Zēlos (ζῆλος) ha qui il significato biblico dell’ardore sacro, del fanatismo pio. Ricorda la formula veterotestamentaria del Dio geloso indicante l’ardore divino nel distogliere Israele dalla frequentazione di altri dei. La grazia non è più il privilegio dei giudei di nascita o dei convertiti, ma è offerta a chiunque crede: questo scatena l’indignazione religiosa dei membri della sinagoga.
Il concetto di zōē aiōnios (ζωὴ αἰώνιος) compare solo in 13,46.48 nel libro degli Atti. Si tratta di una formula giudaica per indicare la salvezza nell’epoca benedetta dell’eone futuro, dal quale gli antiocheni giudei si autoescludono. Il tono non è ironico, ma mira alla loro responsabilità (“non vi giudicate degni”).
Il concetto di zōē aiōnios (ζωὴ αἰώνιος) compare solo in 13,46.48 nel libro degli Atti. Si tratta di una formula giudaica per indicare la salvezza nell’epoca benedetta dell’eone futuro, dal quale gli antiocheni giudei si autoescludono. Il tono non è ironico, ma mira alla loro responsabilità (“non vi giudicate degni”).
Letteralmente, “disposti, ordinati a”, da non leggere troppo nel senso di una predestinazione. Il verbo tassō (τάσσω), infatti, che significa “assegnare, disporre, ordinare”, non viene usato qui in senso teologico. Si tratta di una formulazione giudaica e Luca, attento a preservare il libero arbitrio, mette l’accento sul fatto che Dio, contro ogni aspettativa, concede ai pagani l’accesso alla salvezza. Teologicamente, questa apertura alle nazioni realizza la chiamata più alta rivolta a Israele secondo la citata profezia di Is 49,6. Paolo cercherà fino alla fine di convincerne i giudei.
Il Padre mette le pecore nella mano del Figlio senza cessare di tenerle nella sua, perché la mano indica qui la potenza, comune al Padre e al Figlio. In linea con la Torah, i testi sapienziali e gli scritti profetici, anche Giovanni con il termine cheir (χείρ) sembra indicare Dio stesso come distinto da Dio. La sua mano è intesa come la sua provvidenza, il suo disegno.
Il Padre mette le pecore nella mano del Figlio senza cessare di tenerle nella sua, perché la mano indica qui la potenza, comune al Padre e al Figlio. In linea con la Torah, i testi sapienziali e gli scritti profetici, anche Giovanni con il termine cheir (χείρ) sembra indicare Dio stesso come distinto da Dio. La sua mano è intesa come la sua provvidenza, il suo disegno.
Non si tratta di un’affermazione di uguaglianza: Gesù, che riceve tutto dal Padre suo, può essere “uno (ἕν) con lui” solo restituendogli tutto ciò che da lui riceve. Inoltre, si esprime qui l’unità dell’uomo e di Dio nel linguaggio, nella parola personale – pienamente umana e pienamente divina – di Gesù che, dicendo “io”, rimanda al Prologo, al Verbo incarnato del Dio vivente.
Commento alla Liturgia
IV Domenica di Pasqua
Prima lettura
At 13,14.43-52
14Essi invece, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. 43Sciolta l'assemblea, molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. 44Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. 45Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. 46Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: "Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra ". 48Nell'udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. 50Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. 51Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. 52I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 99
R. Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.
oppure:
R. Alleluia, alleluia, alleluia.
Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza. R.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo. R.
Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione. R.
Seconda Lettura
Ap 7,9.14b-17
9Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. 14Gli risposi: "Signore mio, tu lo sai". E lui: "Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell'Agnello. 15Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. 16Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, 17perché l'Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi ".
Vangelo
Gv 10,27-30
27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola".
Note
Degni della vita eterna
La domenica del “buon Pastore” è per la comunità dei credenti un tempo intermedio tra la festa di Pasqua e quella di Pentecoste, nel quale è necessario verificare in che modo il mistero della risurrezione del Signore Gesù si sta diffondendo «per tutta la regione» (At 13,49) della nostra vita e del corpo ecclesiale in cui siamo innestati attraverso il battesimo.
A partire dalla grande gioia della risurrezione, per i primi apostoli è stato un istinto piuttosto naturale quello di tentare un primo, appassionato annuncio del vangelo ai fratelli a cui erano legati dalla comune fede nel Dio di Israele. Eppure, l’autore degli Atti dichiara apertamente il sorgere di una crescente ostilità verso l’annuncio del Regno proprio da parte di coloro che erano più qualificati e preparati a poterlo accogliere:
«Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo» (At 13,45).
Anziché chiudersi o ostinarsi di fronte a questo reiterato rifiuto da parte di quei Giudei che restano impermeabili al vangelo di Cristo, i testimoni del Risorto si sono aperti a una lettura profonda della realtà. Alla luce della Pasqua, hanno saputo cogliere dentro un fallimento l’opportunità di entrare in uno scenario ancora più grande, nel quale Dio può continuare a operare salvezza:
«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 13,46).
La grande visione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare» (Ap 7,9), nel santuario del cielo a cui accede il veggente di Patmos, sembra incarnare questa grande libertà interiore sperimentata nella primitiva chiesa. I risorti in Cristo che hanno passato «la grande tribolazione» in questo mondo e hanno imparato a lavare «le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello» (7,14) vengono descritti nel libro dell’Apocalisse in un atteggiamento di grande fierezza e di gioiosa dignità:
«Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani» (Ap 7,9).
La tribolazione attraverso cui i redenti sono passati non va immaginata necessariamente come un percorso di martirio cruento, ma come l’esperienza di scoprirsi capaci di andare oltre il vittimismo per aprirsi al conforto di colui che — con la sua vita e con la sua morte — sa guidare tutti «alle fonti delle acque della vita» (7,17). Quella «lacrima», che così facilmente riesce a percorrere all’improvviso il nostro volto e a irrigare i deserti della nostra anima, sarà per sempre asciugata perché un giorno, finalmente, non esiteremo più a essere — non solo a dirci — figli di Dio. I redenti sono raffigurati «in piedi» e non prostrati, in questa domenica, per ravvivare in noi la speranza di poterci rialzare da ogni sconfitta e da ogni tristezza, porgendo l’orecchio lontano dalla voce dei sensi di colpa, verso quella del pastore buono.
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27).
Sembra assolutamente sicuro di sé e di noi Gesù, nel pronunciare queste parole, con una leggerezza che consola e accarezza il nostro incedere spesso incerto e faticoso. Eppure questo sguardo incantato è la luce che, in attesa della Pentecoste, anche noi dobbiamo abituarci ad accogliere e a gustare. Riconoscere e preferire la voce del Figlio non vuol dire altro che rimanere, dolcemente, aggrappati alla sua testimonianza, in grado di dirci quello che siamo e restiamo di fronte a Dio, al di là di qualsiasi fallimento:
«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10,28).
Il mistero pasquale è un dono che colloca la nostra vita nel palmo di una mano sicura e stabile, quella del Padre, il cui volto è ormai lo specchio nel quale possiamo imparare a scrutare tutti i nostri lineamenti, per essere capaci di accogliere ugualmente anche quelli dei nostri fratelli.
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