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Il verbo hupsòō (ὑψόω) entra nel campo del linguaggio della risurrezione, e non nello stile deuteronomistico del resto della retrospettiva di questi versetti sulla storia di Israele. Luca sceglie questo verbo, che significa “elevare, far crescere”, per rimandare al gesto di Dio che innalza gli umili (Lc 1,52), ma la sua connotazione di resurrezione prepara gli ascoltatori a un’altra stria di elevazione, quella di Cristo.
Anche questa scelta del vocabolario rivela il tema che guida la rilettura lucana della storia di Israele: il verbo egeirō (ἐγείρω), insieme ad anìstēmi, è uno dei verbi della resurrezione, ma può anche significare “risvegliare, far alzare”. L’autore sfrutta questa ambivalenza semantica, preparando il lettore a cogliere l’avvenimento di Pasqua, in cui Dio ha risvegliato (ēgeiren) Gesù dai morti. Nella continuità dei gesti attraverso cui Dio fa vivere il suo popolo si opera una tipologia Davide-Gesù.
Commento alla Liturgia
Giovedì della IV settimana di Pasqua
Prima lettura
At 13,13-25
13Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge, in Panfìlia. Ma Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. 14Essi invece, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. 15Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono a dire loro: "Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!". 16Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: "Uomini d'Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. 17Il Dio di questo popolo d'Israele scelse i nostri padri e rialzò il popolo durante il suo esilio in terra d'Egitto, e con braccio potente li condusse via di là. 18Quindi sopportò la loro condotta per circa quarant'anni nel deserto, 19distrusse sette nazioni nella terra di Canaan e concesse loro in eredità quella terra 20per circa quattrocentocinquanta anni. Dopo questo diede loro dei giudici, fino al profeta Samuele. 21Poi essi chiesero un re e Dio diede loro Saul, figlio di Chis, della tribù di Beniamino, per quarant'anni. 22E, dopo averlo rimosso, suscitò per loro Davide come re, al quale rese questa testimonianza: "Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri". 23Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. 24Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d'Israele. 25Diceva Giovanni sul finire della sua missione: "Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali".
Salmo Responsoriale
Dal Sal 88 (89)
R. Canterò in eterno l'amore del Signore.
Oppure:
R. Alleluia, alleluia, alleluia.
Canterò in eterno l'amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà». R.
«Ho trovato Davide, mio servo,
con il mio santo olio l'ho consacrato;
la mia mano è il suo sostegno,
il mio braccio è la sua forza». R.
«La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui
e nel mio nome s'innalzerà la sua fronte.
Egli mi invocherà: Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza». R.
Vangelo
Gv 13,16-20
16In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. 17Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica. 18Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto, ma deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno. 19Ve lo dico fin d'ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono. 20In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato".
Note
Esortazione
La liturgia di oggi sembra tutta costruita appositamente per donarci «qualche parola di esortazione» (At 13,15) capace di orientare il nostro cammino verso i doni e le conseguenze della Pasqua. Di parole di esortazione, sia l’apostolo Paolo che il Signore Gesù ne pronunciano molte nei loro discorsi rivolti, rispettivamente, ai fedeli presenti nella sinagoga di Antiochia di Pisidia e ai discepoli radunati per la loro ultima cena insieme con il Maestro. Come dice bene il salmo responsoriale, con il quale la comunità dei credenti è invitata oggi a cantare e testimoniare «in eterno l’amore del Signore» (Sal 88,2), si tratta di parole necessarie per condurre chi si trova sulla via della fede a mantenere lo sguardo in alto, verso le promesse del Signore: «Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (88,27).
«Uomini d’Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. Il Dio di questo popolo d’Israele scelse i nostri padri...» (At 13,16-17).
Inizia così la memoria delle mirabilia Dei che Paolo lascia fluire liberamente dal suo cuore, ormai purificato e infiammato dalla grazia della conversione al Signore Gesù e alla potenza inerme del suo vangelo. Proprio a partire da quest’ultimo, definitivo dono di Dio all’umanità, l’apostolo è capace di rileggere tutta la storia d’Israele come una successione, senza soluzione di continuità, di premurosi atti di provvidenza ricevuti e immeritati: l’esodo dall’Egitto, il cammino nel deserto, l’ingresso nella terra, l’assistenza prima dei Giudici e poi dei Re d’Israele. Al termine di tutte queste opere di fedele amore, Dio decide infine di inviare il dono dei doni: il suo Figlio unigenito come Salvatore del mondo. Tuttavia i doni, soprattutto quando sono impensabili ed eccessivi, hanno bisogno di essere preparati, non solo da parte di chi li offre, ma anche di chi li riceve:
«Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (At 13,25).
Anche il Signore Gesù, nel vangelo, appare preoccupato di mantenere opportune distinzioni tra servo e padrone, cioè tra la sua esperienza e quella dei discepoli. Lo scopo di questa diversa parola di esortazione non è però quello di far brillare la sua divina statura, ma di porre un freno al nostro — sfacciato — tentativo di elevare la nostra statura al di sopra della sua. Questo inutile sollevamento sulle punte dei piedi tutti lo pratichiamo non tanto per sentirci più grandi di quello che siamo, quanto per evitare le drammatiche conseguenze della libertà, compito a cui, così facilmente, siamo tentati di abdicare:
«In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato» (Gv 13,16).
L’ultima esortazione della liturgia di oggi è l’invito a non sentirci mai troppo piccoli, nel momento in cui cerchiamo di non sopravvalutarci mai oltre i nostri confini e al di là delle nostre mansioni. Dopo averci strappato di mano l’illusione di poter manipolare l’amicizia con lui al fine di sottrarci alla fatica dell’amore, Gesù conclude il suo discorso con un altro, duplice «amen» («in verità»). La solenne introduzione è d’obbligo quando bisogna consegnare al cuore la più profonda e intima delle esortazioni: l’invito a credere che non ci sono più motivi per cui la nostra terra possa sentirsi abbandonata. Dopo il compimento del mistero pasquale, siamo infatti noi, discepoli e corpo di Cristo, quello spazio di umanità e quel fermento di umanizzazione di cui Dio vuole aver bisogno per essere accolto da tutti i suoi figli, i nostri fratelli:
«In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20).
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