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Letteralmente, l’espressione suona “fortificò/indurì il suo volto” ed esprime la determinazione di Gesù nell’andare incontro alla sua passione. Nell’Antico Testamento, questa espressione si traduce o con “avere l’intenzione di” oppure con “opporsi a qualcuno”, e solo in questo ultimo caso contiene lo stesso verbo stērìzō (στηρίζω) utilizzato da Luca in questo versetto. Il progetto risoluto di Gesù, ripetuto al v. 53, comincia a indicare una cristologia del Messia sofferente.
Commento alla Liturgia
Martedì della XXVI settimana di Tempo Ordinario
Prima lettura
Gb 3,1-3.11-17.20-23
1Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2Prese a dire: 3"Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "È stato concepito un maschio!". 11Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 12Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? 13Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo 14con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, 15e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d'argento. 16Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. 17Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. 20Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, 21a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, 22che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, 23a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte?
Salmo Responsoriale
Dal Sal 87(88)
R. Giunga fino a te la mia preghiera, Signore.
Signore, Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte.
Giunga fino a te la mia preghiera,
tendi l’orecchio alla mia supplica. R.
Io sono sazio di sventure,
la mia vita è sull’orlo degli inferi.
Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa,
sono come un uomo ormai senza forze. R.
Sono libero, ma tra i morti,
come gli uccisi stesi nel sepolcro,
dei quali non conservi più il ricordo,
recisi dalla tua mano. R.
Mi hai gettato nella fossa più profonda,
negli abissi tenebrosi.
Pesa su di me il tuo furore
e mi opprimi con tutti i tuoi flutti. R.
Vangelo
Lc 9,51-56
51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto , egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l'ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?". 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Note
In alto
La cornice entro cui l’evangelista Luca iscrive «la ferma decisione» di Gesù «di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) non è affatto un’indicazione temporale. E nemmeno geografica, sebbene il tema dell’attraversamento di «un villaggio di Samaria» (9,52) sollevi l’annoso problema di relazione tra Giudei e Samaritani, ben documentato da tutti i vangeli:
«Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,53).
In realtà, la duplicità di culti religiosi — quello “ufficiale” in Giudea e quello “scismatico” in Samaria — diventa per Luca l’occasione di presentare due modi di intendere l’annuncio del Regno: quello di Gesù, che non chiede a nessuno se non a se stesso di pagare il prezzo della propria passione, e quello dei discepoli, incapaci di accettare il rifiuto e la mancata accoglienza: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (9,54). I discepoli sembrano essere ancora molto lontani dal cuore del Maestro, così fermo nelle proprie decisioni, eppure così incapace di avere verso gli altri uno sguardo intransigente e vendicativo. Per Luca, i giorni in cui Gesù è ormai abitato da una piena disponibilità ad accogliere la sua Pasqua, sono un tempo di elevazione «in alto» (9,51) del mistero della sua vita. Il Signore Gesù vive questo imminente passaggio non solo come qualcosa le cui conseguenze sono in anticipo riconosciute e accettate, ma persino come un’occasione di raggiungere una posizione elevata da cui il suo Spirito può finalmente effondersi e offrire a tutti la salvezza di Dio.
Alcune tradizioni manoscritte introducono il rimprovero di Gesù ai discepoli per la loro dura reazione (9,55) con queste parole: «Voi non sapete di quale spirito siete; il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per perdere le vite degli uomini, ma per salvarle». Questo testo, non accolto nelle versioni critiche dei vangeli, ma riportato in nota, è perfettamente in linea con la narrazione lucana, che raffigura Gesù più impegnato a proseguire il suo cammino che a rimuovere gli ostacoli che si presentano:
«E si misero in cammino verso un altro villaggio» (Lc 9,56).
Ed è in sintonia anche con il canto al vangelo, che rilegge in questi termini l’odierna narrazione evangelica: «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Il lungo sfogo di Giobbe può essere letto come un paradossale compendio del tema dell’elevazione in alto, con cui il vangelo incornicia il cammino di Gesù verso il suo destino di rivelazione dell’amore del Padre. Per quanto possa sembrare arduo cogliere una parola di Dio nel cuore di una prolungata depressione, è sempre importante fare attenzione anche alla forma con cui le parole sanno rivelare non solo la condizione, ma anche la direzione del nostro cuore:
«Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?» (Gb 3,11).
Giobbe non desidera altro che la «pace» e il «riposo» (3,13) dopo tanti tormenti; per questo la prospettiva della morte è considerata persino più vantaggiosa e più felice «di un tesoro» (3,21). Tuttavia, in questo flusso di pensieri e sentimenti che l’autore sacro pone sulle labbra dell’uomo giusto e saggio immerso nel mistero del dolore innocente, le parole assumono all’inizio e alla fine la forma interrogativa:
«Perché dare la luce a un infelice… a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte?» (Gb 3,20.23).
Facendosi attraversare da domande cruciali, Giobbe impara a non dare a nessuno la colpa di quanto sta attraversando la sua vita. In questo modo si prepara la strada della libertà, senza la quale nessun sacrificio — di gioia o di dolore — può essere «elevato in alto», dove lo sguardo di Dio non attende altro che riconoscere il nostro essere stati creati a immagine e somiglianza del suo amore.
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