Commento alla Liturgia

Lunedì della XXXI settimana di Tempo Ordinario

Prima lettura

Fil 2,1-4

1Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri.

Salmo Responsoriale

Dal Sal 130(131)

R. Custodiscimi presso di te, Signore, nella pace.

Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me. R.
 
Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia. R.
 
Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre. R.

Vangelo

Lc 14,12-14

12Disse poi a colui che l'aveva invitato: "Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti".

Commento alla Liturgia

Se

Roberto Pasolini

Molte delusioni che sperimentiamo — anche nei cammini di fede e nelle avventure di comunione — nascono a volte dall’illusione di pensare, con troppa facilità, che nell’altro ci siano gli stessi atteggiamenti e le stesse condizioni in cui noi ci troviamo. A causa di questa incapacità di saperci mettere nei panni dell’altro, prima di chiedere o pretendere qualcosa da lui, scivoliamo spesso nel giudizio o nel cinismo, rinunciando a tessere con pazienza quei legami di fraternità e alleanza di cui la chiesa — unicamente — può vivere.
L’apostolo Paolo, prima di “cantare” la sublime kenosi di Cristo Gesù (Fil 2,5-11), sembra invece capace di manifestare le pretese di comunione verso la chiesa di Filippi solo dopo aver riportato tutto e tutti alla verifica del cuore, il luogo profondo e unitario dove la nostra volontà può esprimersi in sinergia con quella di Dio:

«Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi» (Fil 2,1-2).

Colpisce e invita a riflettere questa successione di “se” tutt’altro che retorici, con i quali Paolo prova con grande lealtà a fare breccia nell’intimo dei suoi fratelli nella fede, non scavalcando il recinto come fanno i mercenari, ma aprendo la porta come fa il buon pastore, che sa condurre al pascolo le sue pecore perché ha fiducia nella loro capacità di cercare e trovare spazi di vita. D’altro canto, la comunione nell’amore, pur “comandando” tutta la nostra vita, non può mai essere pretesa come un comandamento, ma continuamente offerta e sofferta, come un destino liberamente assunto. Ecco perché Paolo, nel momento in cui decide di sprigionare dal cuore dei Filippesi tutta la forza di carità che il battesimo rende possibile, si esprime attraverso un’ipotetica, preferendola a qualsiasi registro dichiarativo o imperativo.
Le parole di Gesù, nel vangelo odierno, solo apparentemente si distanziano da questa modalità di comunicare l’invito a tutta la comunione possibile con Dio e con i fratelli:

«Quando offri un pranzo o una cena, non invitare né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi» (Lc 14,12-13).

La forma imperativa con cui qui Gesù invita a cambiare mentalità e abitudini è dovuta più al carattere paradossale del suo contenuto, che non a un’intenzione di coartare la volontà e la sensibilità del fariseo che lo ha invitato a pranzo. Lo assicura la conclusione del vangelo, dove viene annunciata una prospettiva di vita talmente “altra” dai nostri luoghi comuni da poter ugualmente irritare o rasserenare il nostro cuore:

«[...] e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,14).

Chissà se Gesù, attraverso queste parole, intendeva collocarsi spontaneamente nella schiera dei poveri, rivolgendo così al fariseo un inatteso complimento per la scelta di averlo voluto suo commensale. Ci sono invece pochi dubbi sul fatto che, se vogliamo avere uno sguardo e un atteggiamento inclusivi nei confronti della povertà altrui, è necessario aver accettato — e tenere ben presente — la nostra personale povertà. Solo a partire dall’esperienza del nostro vuoto, accolto e colmato da Dio, può sorgere spontaneamente la volontà di offrire quello che abbiamo, senza aspettarci nulla in cambio, se non il rispetto della nostra libertà, chiamata ad assomigliare a quella di Dio, la cui vita di comunione trinitaria è l’eterna capacità di donarsi e accogliersi. E, in questa libertà dalle attese, sorprenderci di avere un cuore sinceramente «beato».

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Il verbo hēgeomai (ἡγέομαι) è tipico della Lettera ai Filippesi e indica un giudizio una valutazione fondata che porta a una corrispondente decisione. Il sostantivo tapeinosophrune (ταπεινοφροσύνη) non è utilizzato nell’AT (dove compare invece l’aggettivo), mentre nel NT descrive il rapporto con Dio oppure tra cristiani nelle loro relazioni comunitarie. La collocazione del termine qui prepara così il verbo corrispondente in 2,8. Diversi sono stati i tentativi di traduzione dell’intera espressione, che letteralmente suona “e che vi sia così una compensazione per te”. Il termine antapòdoma (ἀνταπόδομα), che letteralmente significa “compensazione, retribuzione” (antì, apò, dìdōmi), è stato poi tradotto con “contraccambio”. Tuttavia, l’idea prevalente, come suggerisce il v. 14, sembra essere quella della ricompensa: invitando solo amici e parenti, ci si priva della ricompensa celeste. Bisogna intendere bene questo futuro èsē (ἔσῃ), che potrebbe riferirsi alla risurrezione generale dei morti e al regno di Dio oppure al tempo della chiesa e della vita cristiana. In questo secondo caso, il senso è che la felicità sia possibile oggi, che anche questo tempo può essere l’anticamera del regno, anticipato dal pranzo offerto agli emarginati.

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