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L'avverbio con cui si introduce la definitiva Parola di Dio all'umanità è ricco di significati. Con ἔσχατος (eschatos) si può intendere: 1) l'estremità di un'area, 2) l'articolo finale di una serie, 3) il confine estremo di un parametro, di un valore o di una situazione. Ciò che accomuna tutti questi significati è il loro carattere “estremo”: qualcosa oltre il quale non c'è più nulla. «L'estremità di questi giorni» diventa allora un'indicazione di tempo universale, un promontorio valido e riconoscibile da ogni generazione.
Il verbo κατέλαβεν (katelaben) non è facile da tradurre. È formato dal verbo «afferrare» (λαμβάνω), preceduto da un prefisso che intensifica il valore del verbo (κατά). Ne risulta una forte ambivalenza che oscilla dal significato di «accogliere» a quello di «sopraffare». Il prologo sembra così dire che, di fronte al sorgere della luce vera (il Verbo di Dio), le tenebre della nostra umanità hanno solo due scelte: accogliere o respingere. Ma nemmeno la nostra indifferenza può spegnere il desiderio di Dio di raggiungerci.
Letteralmente, il termine è al plurale e questa lezione è unica nel corpus giovanneo: “non da sangui”. Secondo alcuni studiosi, la Bibbia usa il singolare finché il sangue circola all’interno della persona ed è quindi segno di vita, e il plurale quando è versato con la morte. Lo stesso termine al plurale si applica al ciclo mestruale della donna, tanto che ricorre nel libro del Levitico in riferimento alle norme per la purificazione rituale dopo il parto. È importante osservarlo perché il plurale svincola l’appartenenza “ai suoi” – al popolo eletto – dall’ascendenza di una madre giudea e la associa invece alla fede.
Questo verbo finale del prologo, exēghèomai (ἐξηγέομαι), ha un duplice significato: quello abituale di “condurre da un luogo a un altro” assumendosi la responsabilità della guida, e l’altro di “far comprendere”, nel senso che Gesù come Figlio è l’esegeta e l’esegesi del Padre, la guida e la via. Il verbo ricorre nel NT 6 volte, di cui 5 nell'opera lucana per lo più in questo significato di "narrare". Il verbo invita dunque a rileggere l’insieme del testo nella prospettiva della relazione unica di Gesù col Padre, grazie alla quale il Figlio si comunica in noi (cf. v. 14), “trascinandoci” con sé, secondo un’evocativa traduzione di exēghèomai.
Commento alla Liturgia
Natale del Signore (Messa del giorno)
Prima lettura
Is 52,7-10
7Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". 8Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. 9Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. 10Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 97 (98)
R. Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo. R.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d'Israele. R.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni! R.
Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore. R.
Seconda Lettura
Eb 1,1-6
1Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, 2ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. 3Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell'alto dei cieli, 4divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. 5Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato ? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio ? 6Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio.
Vangelo
Gv 1,1-18
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2Egli era, in principio, presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15Giovanni gli dà testimonianza e proclama: "Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me". 16Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Note
Approfondimenti
Il verbo all’imperfetto, in greco e in italiano, non rimanda a un passato concluso. Trattandosi del verbo essere, l’imperfetto assume il significato di un passato che influisce sul presente: “in principio c’era/c’è la parola”. La parola è sempre stata in principio e vi rimane per sempre. L’affermazione si applica a tutto ciò che comincia. La parola instaura così uno spazio-tempo umano, quindi relazionale e culturale. Il verbo “era” richiama anche il nome divino che si trova in Es 3,14: “Io sono colui che sono”.
Più precisamente, con il primo "era" non si dice che il Logos sia stato creato ma che esisteva in eterno. Tuttavia, il Logos non va identificato con Dio: nel terzo "era", davanti alla parola "Dio" non vi è articolo, e questo non autorizza la traduzione "era uguale a Dio" o "era simile a Dio", piuttosto l'assenza dell'articolo mantiene la distinzione delle due realtà, che mantengono una comunione personale d'amore. Si potrebbe tradurre "ciò che era Dio lo era anche il Verbo".
Il concetto di logos (λόγος) del quarto vangelo deriva dalla letteratura ebraica più che dalla filosofia greca, in particolare dai concetti teologici di Parola e di Sapienza. A partire dai racconti di creazione, si sviluppa in Israele una profonda riflessione sul concetto di “parola di Dio” come potenza che crea e sostiene il mondo.
I libri sapienziali (cf. Pr 8, Gb 28, Sir 24, Sap 7-9) descrivono la Sapienza come la prima delle creature, che ha cooperato con Dio nella creazione dell’universo come archetipo o come architetto. La Sapienza ha cercato una dimora stabile in mezzo agli uomini e, dopo essere stata rifiutata, avrebbe ricevuto ordine da Dio di stabilirsi in Israele, nella città santa di Gerusalemme.
In ogni caso, il prologo non usa il termine greco sophìa ma quello di Logos, che linguisticamente si avvicina di più al concetto di “parola”. Inoltre, nel giudaismo, le ipostasi bibliche della Sapienza, della Parola, della Torah, non diventano mai delle personalizzazioni, come invece avviene nel prologo.
Nella grazia di essere figli
Nel Vangelo della messa del giorno di Natale ascoltiamo l’ouverture del vangelo di Giovanni. È l’inizio di una sinfonia in cui si preludono i motivi dell’intero vangelo. Giovanni, che in tutto il suo vangelo lascerà trasparire la domanda circa l’origine di Gesù, non apre il suo vangelo con una genealogia, né con un prologo a carattere storico, ma realizza la sua indagine liberando la poesia, sorella della profezia e della parola della fede, in un canto cristologico che lascia commossi e senza fiato.
Giovanni ci porta «in principio», espressione con cui si aprono le Scritture ebraico-cristiane e, portandoci lì, non ci porta tanto in un luogo quanto in una relazione, quella da cui tutto ha origine, ci porta nel seno della Trinità. L’origine di Gesù è il «principio» di tutto, la causa prima da cui proviene ogni cosa. Egli viene da Dio, è Dio, si fa conoscere come «vita» e come «luce» e si fa precedere da un testimone che accoglie la missione di «dare testimonianza alla luce perché tutti credessero per mezzo di lui» (Gv 1,7). Venendo nel mondo, il Figlio realizza l’opera dell’illuminazione, opera diversa da quella decorativa che coinvolge le nostre città nel periodo delle festività natalizie, diversa perché rivelativa non di una luce qualunque, smorta o a intermittenza, ma della luce «vera», categoria che porta la firma di Dio, perché capace di intercettare le tenebre di ogni uomo. L’illuminazione per Giovanni non è il risultato di tecniche ascetiche, ma è l’accoglienza libera e profonda della divina Parola. Non è frutto dello sforzo dell’uomo che punta a raggiungere il divino, ma reciprocità dialogante con il Padre nella carne del Figlio Suo.
La luce entra nel mondo illuminando, ma incontra la resistenza del mondo che non la riconosce:
«era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11).
È il dramma che Dio sperimenta nella relazione con il suo popolo quando ricorda, per bocca di Isaia, che «il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Is 1,3). È il mistero della libertà umana che, dinanzi allo stesso evento dell’attendarsi di Dio nella storia mediante la carne umana di Gesù, sperimenta lo scandalo e l’inciampo oppure si sente sollevato e riportato in vita (cf. Lc 2,34).
Accanto a chi non riconosce e non comprende, però, c’è anche chi accoglie la luce e, mediante la fede in Gesù, si lascia trasfigurare in figlio e figlia di Dio:
«A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati» (Gv 1,12.13).
In tal modo scopriamo che la nostra origine non è legata solo a legami di sangue. La nostra vera “genealogia” è la fede in Gesù che ci dona una nuova provenienza, ci fa nascere da Dio. Per questo Giovanni non può non esplodere in quel grido gioioso:
«il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria… dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» (Gv 1,14.16).
Nell’uomo Gesù vi è l’“attendarsi” del Verbo, il Logos eterno, il suo fissare la tenda nel mondo, nella storia. La carne di Gesù è la tenda del Verbo, la tenda dell’incontro tra Dio e l’uomo, prefigurata dalla tenda nel deserto e dal tempio di Gerusalemme.
L’incarnazione appare allora come l’espressione dell’amore che non solo si fa vicino, ma mostra il superamento di ogni misura perché si fa carne della tua carne, si fa te. Facendosi te, inoltre, fa l’esegesi del Padre (Gv 1,18), un’esegesi che non solo ce ne lascia intuire il volto, ma che dà accesso all’esperienza dinamica, amorosa e feconda della relazione con Lui.
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