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Del sostantivo χρῖσμα (krìsma) troviamo, nel Nuovo Testamento, solo due occorrenze nella prima lettera di Giovanni. La sua radice sta nel verbo χρίω (krìo), che significa ungere, e per questo con “crisma” si intende tuttora l’olio utilizzato per l’unzione. In questo versetto, “l’unzione del Santo” può riferirsi sia all’azione dello Spirito Santo nel battesimo sia a quella di Dio stesso, il Santo per eccellenza, azione che suscita una conoscenza della verità non intellettuale ma come esperienza concreta, vitale, e a tutti accessibile.
Il verbo κατέλαβεν (katelaben) non è facile da tradurre. È formato dal verbo «afferrare» (λαμβάνω), preceduto da un prefisso che intensifica il valore del verbo (κατά). Ne risulta una forte ambivalenza che oscilla dal significato di «accogliere» a quello di «sopraffare». Il prologo sembra così dire che, di fronte al sorgere della luce vera (il Verbo di Dio), le tenebre della nostra umanità hanno solo due scelte: accogliere o respingere. Ma nemmeno la nostra indifferenza può spegnere il desiderio di Dio di raggiungerci.
Letteralmente, il termine è al plurale e questa lezione è unica nel corpus giovanneo: “non da sangui”. Secondo alcuni studiosi, la Bibbia usa il singolare finché il sangue circola all’interno della persona ed è quindi segno di vita, e il plurale quando è versato con la morte. Lo stesso termine al plurale si applica al ciclo mestruale della donna, tanto che ricorre nel libro del Levitico in riferimento alle norme per la purificazione rituale dopo il parto. È importante osservarlo perché il plurale svincola l’appartenenza “ai suoi” – al popolo eletto – dall’ascendenza di una madre giudea e la associa invece alla fede.
Questo verbo finale del prologo, exēghèomai (ἐξηγέομαι), ha un duplice significato: quello abituale di “condurre da un luogo a un altro” assumendosi la responsabilità della guida, e l’altro di “far comprendere”, nel senso che Gesù come Figlio è l’esegeta e l’esegesi del Padre, la guida e la via. Il verbo ricorre nel NT 6 volte, di cui 5 nell'opera lucana per lo più in questo significato di "narrare". Il verbo invita dunque a rileggere l’insieme del testo nella prospettiva della relazione unica di Gesù col Padre, grazie alla quale il Figlio si comunica in noi (cf. v. 14), “trascinandoci” con sé, secondo un’evocativa traduzione di exēghèomai.
Commento alla Liturgia
7° giorno fra l'ottava di Natale
Prima lettura
1Gv 2,18-21
18Figlioli, è giunta l'ultima ora. Come avete sentito dire che l'anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l'ultima ora. 19Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri. 20Ora voi avete ricevuto l'unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza. 21Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 95 (96)
R. Gloria nei cieli e gioia sulla terra.
Oppure:
R. Tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome,
annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. R.
Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta. R.
Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli. R.
Vangelo
Gv 1,1-18
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2Egli era, in principio, presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15Giovanni gli dà testimonianza e proclama: "Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me". 16Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Note
Approfondimenti
Il verbo all’imperfetto, in greco e in italiano, non rimanda a un passato concluso. Trattandosi del verbo essere, l’imperfetto assume il significato di un passato che influisce sul presente: “in principio c’era/c’è la parola”. La parola è sempre stata in principio e vi rimane per sempre. L’affermazione si applica a tutto ciò che comincia. La parola instaura così uno spazio-tempo umano, quindi relazionale e culturale. Il verbo “era” richiama anche il nome divino che si trova in Es 3,14: “Io sono colui che sono”.
Più precisamente, con il primo "era" non si dice che il Logos sia stato creato ma che esisteva in eterno. Tuttavia, il Logos non va identificato con Dio: nel terzo "era", davanti alla parola "Dio" non vi è articolo, e questo non autorizza la traduzione "era uguale a Dio" o "era simile a Dio", piuttosto l'assenza dell'articolo mantiene la distinzione delle due realtà, che mantengono una comunione personale d'amore. Si potrebbe tradurre "ciò che era Dio lo era anche il Verbo".
Il concetto di logos (λόγος) del quarto vangelo deriva dalla letteratura ebraica più che dalla filosofia greca, in particolare dai concetti teologici di Parola e di Sapienza. A partire dai racconti di creazione, si sviluppa in Israele una profonda riflessione sul concetto di “parola di Dio” come potenza che crea e sostiene il mondo.
I libri sapienziali (cf. Pr 8, Gb 28, Sir 24, Sap 7-9) descrivono la Sapienza come la prima delle creature, che ha cooperato con Dio nella creazione dell’universo come archetipo o come architetto. La Sapienza ha cercato una dimora stabile in mezzo agli uomini e, dopo essere stata rifiutata, avrebbe ricevuto ordine da Dio di stabilirsi in Israele, nella città santa di Gerusalemme.
In ogni caso, il prologo non usa il termine greco sophìa ma quello di Logos, che linguisticamente si avvicina di più al concetto di “parola”. Inoltre, nel giudaismo, le ipostasi bibliche della Sapienza, della Parola, della Torah, non diventano mai delle personalizzazioni, come invece avviene nel prologo.
Non sprecare più
Il grande esame di coscienza che accompagna l’ultimo giorno dell’anno è illuminato dalle dense parole del prologo del Vangelo di Giovanni. Questo brano del Vangelo è tra i più ricchi di luce e proprio per questo si fa fatica a tenere gli occhi aperti su tutto ciò che vuole indicarci. Forse però potrebbero essere due le provocazioni che possiamo prendere in considerazione: la prima riguarda ciò che non abbiamo saputo cogliere da questo anno che è passato. Quante occasioni perdute. Quanta mancanza di accoglienza. Quanta pigrizia o egoismo ci ha fatti ripiegare su noi stessi:
“Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”.
Non dobbiamo avere paura di ammettere ciò che non siamo riusciti ad accogliere, anzi proprio da questa consapevolezza possiamo imparare a ringraziare e a non sprecare più, perché chi accoglie sperimenta il miracolo dei figli:
“A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.
La caratteristica dei figli è fondamentalmente una: sono liberi. E possono esserlo solo perché si sentono amati, si sentono di qualcuno, si sentono al sicuro. I figli partecipano delle cose del Padre. Se il Padre è Dio allora i figli partecipano della stessa divinità. Ciò non significa che hanno superpoteri ma partecipano di ciò che Dio è nella Sua Essenza: Dio è Amore. I figli diventano così riflesso di questo Amore.
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