Secondo gli studiosi, con il termine hieròn (ἱερόν) qui utilizzato e tradotto con “tempio” si intende il “santuario”, cioè tutto il complesso sacro costruito attorno (i portici, le recinzioni, i cortili), mentre il “tempio” era l’edificio al centro del terzo recinto, che conteneva il Santo dei Santi, e per indicarlo il Nuovo Testamento – come anche la Settanta e altri scritti dell’antichità classica – usa il sostantivo naòs (ναός).
Gesù, non essendo di stirpe sacerdotale, entrerà nel “santuario” ma non nel “tempio”, dove pure è collocato il velo che si squarcia alla sua morte.
Questa distinzione è importante dal punto di vista teologico soprattutto nel Vangelo di Giovanni, in cui il corpo di Gesù è paragonato al “tempio” vero e proprio.
Commento alla Liturgia
I Domenica di Quaresima
Prima lettura
Gen 2,7-9. 3,1-7
7Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente. 8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. 1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: "È vero che Dio ha detto: "Non dovete mangiare di alcun albero del giardino"?". 2Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: "Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete"". 4Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male". 6Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 50(51)
R. Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. R.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto. R.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. R.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode. R.
Seconda Lettura
Rm 5,12-19
12Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato... 13Fino alla Legge infatti c'era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. 15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. 16E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. 18Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Vangelo
Mt 4,1-11
1Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane". 4Ma egli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio ". 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra ". 7Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo ". 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: "Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai". 10Allora Gesù gli rispose: "Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto ". 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Note
Approfondimenti
Secondo gli studiosi, con il termine hieròn (ἱερόν) qui utilizzato e tradotto con “tempio” si intende il “santuario”, cioè tutto il complesso sacro costruito attorno (i portici, le recinzioni, i cortili), mentre il “tempio” era l’edificio al centro del terzo recinto, che conteneva il Santo dei Santi, e per indicarlo il Nuovo Testamento – come anche la Settanta e altri scritti dell’antichità classica – usa il sostantivo naòs (ναός).
Gesù, non essendo di stirpe sacerdotale, entrerà nel “santuario” ma non nel “tempio”, dove pure è collocato il velo che si squarcia alla sua morte.
Questa distinzione è importante dal punto di vista teologico soprattutto nel Vangelo di Giovanni, in cui il corpo di Gesù è paragonato al “tempio” vero e proprio.
Essere viventi
Il celebre racconto di creazione contenuto nelle prime pagine della Genesi ci svela come la grazia della nostra conversione non possa essere compresa al di fuori del delicato rapporto tra la nostra libertà e quella del Creatore che, nell’ottavo giorno della creazione, entrano subito in un drammatico confronto. All’uomo ormai divenuto «essere vivente» (Gen 2,7) e posto da Dio nell’incanto del giardino della vita, il «serpente» rivolge un apparente interrogativo in cui si camuffa una subdola affermazione: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (3,1). Il veleno contenuto in questa parola non è l’invito ad attivare una coscienza critica sulla realtà creata da Dio, ma la confusione e la perversione circa il senso del limite, indicato dal serpente come un insopportabile confine da oltrepassare per un accesso pieno al dono della vita:
«Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5).
Veniamo tutti attratti dalla forza persuasiva di questo ragionamento ogni volta che cominciamo a guardare con sospetto le inevitabili – e innumerevoli – limitazioni che segnano — ma anche custodiscono — lo sviluppo della nostra vita umana dentro la storia. Trasgredire, anziché progredire, di fronte al limite, è sempre cedere alla tentazione di immaginare l’esistenza di una qualche scorciatoia che possa farci risparmiare la fatica di accompagnare la maturazione della nostra umanità fino a raggiungere non solo l’immagine ma anche la somiglianza con Dio: «…così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato» (Rm 5,12). Gustiamo il sapore amaro della morte quando non fruiamo più del mistero della vita come un dono di cui essere serenamente fieri e gioiosamente responsabili, scivolando in un baratro di insicurezza dove ci sentiamo vulnerabili e spaventati:
«Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7).
Nel deserto, Gesù affronta nella sua carne umana il combattimento contro le tre tentazioni fondamentali in cui si articola quella originaria descritta nel libro della Genesi. La prima è quella della tirannia delle soddisfazioni — «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,4) — quando siamo attirati da forme di compensazione di cui ci sembra di aver assoluto bisogno, piegando gli altri e la realtà a nostro servizio. Fortunatamente, «non di solo pane», e non solo per «se stessi» (cf. 2Cor 5,15), si può vivere. La seconda è la tentazione della rapida affermazione e del successo senza sforzo, la lusinga di una vita facile, dove gli altri sono ridotti a un pubblico a conferma del nostro prestigio. Per fortuna il Signore non si lascia mettere «alla prova» (Mt 4,7) per essere ridotto a strumento della nostra vanagloria, perché la nostra vita merita di essere costruita pian piano, con la stessa pazienza con cui Dio dona e ama. L’ultima tentazione è la più subdola e pericolosa, perché propone la formula del possesso come antidoto alla precarietà del vivere: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» (4,9). La bramosia di possedere è una felicità illusoria, perché ci espropria da noi stessi e ci introduce in un’invincibile ansia dove, alla fine, si rimane soli e inappagati.
«Vattene, satana!» (Mt 4,10),
risponde con forza il Signore Gesù all’ultima tentazione, insegnandoci che l’apparente forma interrogativa con cui il male si propone può essere vinta solo con la forza di un asciutto imperativo. Non quello pieno di supponenza con cui in genere respingiamo gli altri quando scavalcano i loro limiti, ma quello ricco di umiltà con cui possiamo aiutare noi stessi a restare in pace dentro i nostri limiti. Solo così possiamo restare viventi davanti a Dio e in mezzo ai fratelli: unendoci all’«opera giusta» (Rm 5,18) del suo Figlio, il «dono di grazia» riversato «in abbondanza su tutti» (5,15), «che dà vita» (5,18) a chi la cerca e a chi l’ha perduta.
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