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Con il significato “di seguito, in ordine”, l’autore degli Atti rivendica a sé l’uso dell’avverbio kathexès (καθεξῆς), con cui descrive la sua opera dedicata a Teofilo (Lc 1,3). Il termine evoca il rigore nell’organizzazione del discorso, che procede punto per punto, anche se in questo caso l’ordine di Pietro sarà diverso dall’ordine scelto dal narratore nel capitolo precedente: qui infatti si comincia con l’estasi di Pietro, invece che con la visione di Cornelio, al fine di anticipare il verdetto di Dio / la tesi di Pietro: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano”.
Generalmente tradotto con “impuro, contaminato”, l’aggettivo κοινός (koinòs) indica letteralmente “ciò che è comune”, e per estensione ciò che non è riservato a Dio. Nel Nuovo Testamento il significato varia tra ciò che è comune al gruppo, come i beni o la fede (At 2,44; 4,32; Tt 1,4), e ciò che è ritualmente impuro (Mc 7,2.5). Qui è una categoria più generica per indicare tutto ciò che è ordinario, non dedicato a Dio. La sfida teologica è notevole: “dichiarare profano” (forma verbale con la stessa radice dell’aggettivo: koinoō, κοινόω) è andare contro Dio. La tesi diventa: coloro che Dio ha accolto, tu non respingerli.
Il verbo diakrìno (διακρίνω) alla forma attiva non ha lo stesso senso che nella forma media in cui compare in 10,20 nel senso di “esitare”. Qui andrebbe più propriamente tradotto con “senza fare alcuna differenza, senza discriminare”. Mediante questo sottile gioco di linguaggio, Luca introduce la simbologia contenuta nell’incontro: abbattere il muso che separa il circonciso dal non circonciso.
L’archē (ἀρχή), il principio è la Pentecoste e il “noi” si riferisce ai giudeo-cristiani, beneficiari della venuta dello Spirito Santo all’inizio della Chiesa. La riflessione teologica di Pietro coglie il parallelismo tra l’effusione iniziale e l’effusione di Cesarea, che pone giudei e non giudei sullo stesso piano.
Il verbo ēsuchàzō (ἡσυχάζω) è il verbo del riposo, della calma, della tranquillità, indica la fine dell’agitazione e del conflitto. È un verbo caratteristico di Luca per esprimere la cessazione dell’attività e l’ingresso nel riposo.
Letteralmente il testo dice “ha dato la conversione (metànoia, μετάνοια) per la vita”. Qui la conversione è un dono di Dio, mentre finora era stata presentata come un dovere dell’essere umano, quello di cambiare mentalità, di esprimere un dispiacere che inaugura il divenire cristiano. Rivolgendosi a giudeo-cristiani, Luca non attribuisce a Cornelio e ai suoi nessun dispiacere, ma spiega che convertirsi è volgersi verso il Dio che assicura la vita. Luca quindi non è esclusivo: la conversione è il momento in cui Dio (con la sua offerta) e l’uomo (con il suo sforzo) si incamminano l’uno verso l’altro.
Il termine misthōtòs (μισθωτός), qui inteso nel senso negativo di “mercenario”, contiene il sostantivo misthòs (μισθός), che indica anzitutto la “remunerazione” per il lavoro svolto, ma anche una “ricompensa” da parte di Dio, come riconoscimento della qualità morale di un’azione. Qui si vuole sottolineare la differenza di una relazione di appartenenza tra Gesù e gli uomini “a tempo indeterminato” rispetto a un rapporto di convenienza, come può essere quello del mercenario, che richiama i cattivi pastori di certe pagine profetiche dell’Antico Testamento.
Il termine misthōtòs (μισθωτός), qui inteso nel senso negativo di “mercenario”, contiene il sostantivo misthòs (μισθός), che indica anzitutto la “remunerazione” per il lavoro svolto, ma anche una “ricompensa” da parte di Dio, come riconoscimento della qualità morale di un’azione. Qui si vuole sottolineare la differenza di una relazione di appartenenza tra Gesù e gli uomini “a tempo indeterminato” rispetto a un rapporto di convenienza, come può essere quello del mercenario, che richiama i cattivi pastori di certe pagine profetiche dell’Antico Testamento.
Il verbo lambànō (λαμβάνω) ricorre tre volte in due versetti, con sfumature alquanto diverse. Il significato principale del verbo – “prendere” – può avere il duplice senso di “afferrare, prendere in possesso” e di “ricevere, accettare, accogliere”, “fare proprio” nell’ambito di una relazione intima e personale. Anche Gesù, nella teologia del quarto Vangelo, riceve tutto dal Padre, come attesta la traduzione della terza occorrenza: “il comando che ho ricevuto dal Padre mio”. Potremmo tradurre allo stesso modo anche le prime due: la vita che Gesù dà la riceverà di nuovo dal Padre, risorta.
Il verbo lambànō (λαμβάνω) ricorre tre volte in due versetti, con sfumature alquanto diverse. Il significato principale del verbo – “prendere” – può avere il duplice senso di “afferrare, prendere in possesso” e di “ricevere, accettare, accogliere”, “fare proprio” nell’ambito di una relazione intima e personale. Anche Gesù, nella teologia del quarto Vangelo, riceve tutto dal Padre, come attesta la traduzione della terza occorrenza: “il comando che ho ricevuto dal Padre mio”. Potremmo tradurre allo stesso modo anche le prime due: la vita che Gesù dà la riceverà di nuovo dal Padre, risorta.
Il verbo lambànō (λαμβάνω) ricorre tre volte in due versetti, con sfumature alquanto diverse. Il significato principale del verbo – “prendere” – può avere il duplice senso di “afferrare, prendere in possesso” e di “ricevere, accettare, accogliere”, “fare proprio” nell’ambito di una relazione intima e personale. Anche Gesù, nella teologia del quarto Vangelo, riceve tutto dal Padre, come attesta la traduzione della terza occorrenza: “il comando che ho ricevuto dal Padre mio”. Potremmo tradurre allo stesso modo anche le prime due: la vita che Gesù dà la riceverà di nuovo dal Padre, risorta.
Commento alla Liturgia
Lunedì della IV settimana di Pasqua
Prima lettura
At 11,1-18
1Gli apostoli e i fratelli che stavano in Giudea vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio. 2E, quando Pietro salì a Gerusalemme, i fedeli circoncisi lo rimproveravano 3dicendo: "Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!". 4Allora Pietro cominciò a raccontare loro, con ordine, dicendo: 5"Mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e in estasi ebbi una visione: un oggetto che scendeva dal cielo, simile a una grande tovaglia, calata per i quattro capi, e che giunse fino a me. 6Fissandola con attenzione, osservai e vidi in essa quadrupedi della terra, fiere, rettili e uccelli del cielo. 7Sentii anche una voce che mi diceva: "Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!". 8Io dissi: "Non sia mai, Signore, perché nulla di profano o di impuro è mai entrato nella mia bocca". 9Nuovamente la voce dal cielo riprese: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano". 10Questo accadde per tre volte e poi tutto fu tirato su di nuovo nel cielo. 11Ed ecco, in quell'istante, tre uomini si presentarono alla casa dove eravamo, mandati da Cesarèa a cercarmi. 12Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare. Vennero con me anche questi sei fratelli ed entrammo in casa di quell'uomo. 13Egli ci raccontò come avesse visto l'angelo presentarsi in casa sua e dirgli: "Manda qualcuno a Giaffa e fa' venire Simone, detto Pietro; 14egli ti dirà cose per le quali sarai salvato tu con tutta la tua famiglia". 15Avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo discese su di loro, come in principio era disceso su di noi. 16Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: "Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo". 17Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?". 18All'udire questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: "Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!".
Salmo Responsoriale
Dal Sal 41(42) e 42(43)
R. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente.
Oppure:
R. Alleluia, alleluia, alleluia.
Come la cerva anela ai corsi d'acqua,
così l'anima mia anela a te, o Dio.
L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente:
quando verrò e vedrò il volto di Dio? R.
Manda la tua luce e la tua verità:
siano esse a guidarmi,
mi conducano alla tua santa montagna,
alla tua dimora. R.
Verrò all'altare di Dio,
a Dio, mia gioiosa esultanza.
A te canterò sulla cetra,
Dio, Dio mio. R.
Vangelo
Gv 10,11-18
11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio".
Note
Estasi
I discepoli dovettero compiere un lungo cammino, dopo la Pasqua, per rimanere fedeli alle proprie tradizioni religiose e, al contempo, aprire gli orizzonti del cuore e della mente alla grande trasformazione operata da Cristo dentro la storia umana. Il libro degli Atti documenta come per gli apostoli del Signore risorto non fu per nulla scontato, eppure inevitabile, arrivare a comprendere — ma soprattutto essere disposti ad accettare — l’universalità del vangelo ormai assicurata dal dono dello Spirito Santo effuso in ogni cuore:
«Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!» (At 11,18).
Dopo essersi seduto a mensa con alcuni pagani a cui era giunto l’annuncio pasquale, Pietro sembra quasi volersi giustificare davanti a quei «fedeli circoncisi» (cristiani di origine giudaica) che «lo rimproveravano» (11,2) per aver mangiato — con troppa libertà di spirito — i cibi considerati impuri secondo le prescrizioni giudaiche. La risposta dell’apostolo assicura che non è stata una decisione arbitraria, ma profondamente e ripetutamente ispirata dall’alto:
«Nuovamente la voce dal cielo riprese: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano”» (At 11,9).
Anzi, è stata una vera e propria chiamata apostolica a convincerlo di poter e dover andare a sedere alla mensa dei pagani: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (11,12).
Pietro ricorre a un vocabolo molto particolare per descrivere la condizione interiore che lo ha spinto ad andare con coraggio, «senza esitare» (11,12) oltre le proprie misure e la propria sensibilità. Parla di una vera e propria «estasi», grazie alla quale è stato possibile accedere a «una visione» (11,5) fino a quel momento sconosciuta o temuta. Trovarsi in estasi — al di là di alcune implicazioni mistiche assai esclusive — significa semplicemente essere condotti fuori da se stessi, al di là dei propri consueti orizzonti e del proprio modo di ragionare e valutare le cose. Molto opportunamente, la traduzione nella lingua latina di questa particolare esperienza è appunto «excessus mentis». Il racconto che Pietro fa di questo momento del suo itinerario di fede è piuttosto suggestivo:
«Mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e in estasi ebbi una visione: un oggetto che scendeva dal cielo, simile a una grande tovaglia, calata per i quattro capi, e che giunse fino a me» (At 11,5).
Questo incremento di vita è frutto della dinamica inclusiva della Pasqua, capace di allargare lo sguardo sulla realtà fino a (ri)comprendere le cose, le persone e le situazioni non a partire da quello che possono dare, ma da quello che consentono di offrire, affinché tutta la vita e la vita di tutti sia più libera e vera. È stata proprio questa la coscienza con cui, nella sua Pasqua, il Signore Gesù ha potuto varcare le porte degli inferi in cui la nostra umanità è (tenuta) prigioniera a causa del peccato. L’evangelista Giovanni fa ricorso alla metafora del pastore e delle pecore per illuminare il rapporto di indistruttibile amore che lega la sua vita alla nostra:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11).
Il Signore Gesù è potuto uscire da se stesso per entrare nell’abisso profondo della nostra solitudine perché ha considerato la mensa della nostra vita non un banchetto impuro, ma un luogo in cui potersi sedere con disponibilità e gioia. Ai suoi occhi noi non siamo mai pecore «altre» — non amabili e non familiari — ma semplicemente «altre pecore» da amare e da accompagnare premurosamente fino all’incontro con il Padre, dove ogni esistenza è ricordata e custodita per sempre.
Questo sguardo, così fedele e inclusivo, è in grado di infondere nella nostra umanità la fiamma del desiderio più grande: quello che ci spinge a uscire da noi stessi fino a non appartenerci più. E così, nell’estasi dell’amore, ricevere per sempre il dono della vita:
«Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo [...] Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17.18).
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