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Questo verbo dalla forma doppiamente composta sun – anti – lambanomai (συναντιλαμβάνομαι) compare nel NT solo qui e in Lc 10,40, quando Marta intima a Gesù nei confronti della sorella Maria “dille che mi aiuti”. Qui potrebbe suggerire l’idea che lo Spirito porta la nostra debolezza insieme (sun, συν) a noi e si carica una parte del peso che ci sta davanti (anti, αντι).
Il pronome neutro ti (τί) potrebbe essere tradotto “per che cosa” dobbiamo pregare oppure “come” dobbiamo pregare. In realtà, unisce in sé entrambe le sfumature: “per che cosa è giusto – cioè conforme alla volontà di Dio – che noi preghiamo”.
Non si tratterebbe qui della preghiera carismatica della glossolalia (legata alla lode cultuale), interpretazione che ha avuto molta fortuna perché risale ai grandi padri Origene e Crisostomo. Poiché si parla dei gemiti “dello Spirito”, non “dei credenti”, l’aggettivo alalētos (ἀλάλητος) in questo contesto si riferisce a quei gemiti “che le parole non sono in grado di esprimere”, nel senso che il linguaggio della preghiera dello Spirito è un mistero di intercessione che prende posto nei nostri cuori in modi che non percepiamo.
Ci si può chiedere in cosa consista questa attività del nemico: si potrebbe trattare dell’interpretazione della parola del Regno. Infatti, la prima delle attività del Maligno è deviare l’uomo dalla comprensione della Parola, distorcendone il senso, per portarlo sotto un altro potere. Sul piano della comunità matteana, l’avversario potrebbe essere chiunque tenti di attenuare la portata delle parole di Gesù e la sua interpretazione della Torah.
Nella cultura del tempo, l’immagine del lievito non era del tutto positiva. In particolare, nella prassi liturgica di Israele, soprattutto per la festa di Pasqua, il lievito rappresentava qualcosa di impuro da eliminare dalla pasta per poter mangiare solo “azzimi”. Secondo alcuni esegeti, Gesù avrebbe scelto qui un simbolo ambiguo per invitare a non dare nulla per scontato rispetto alla presenza del Regno nella realtà e nella storia. Qui l’accento sembra essere sul fatto che il lievito è nascosto, quindi il Regno opera anche se e quando non si vede.
Il verbo qui utilizzato è egkruptō (ἐγκρύπτω), che alla lettera significa “nascondere”. Questo senso letterale è importante perché lo stesso verbo ritorna al v. 35 – “proclamerò cose nascoste” – offrendo un collegamento di senso alla parabola.
La parola greca saton (σάτον) è un prestito dall’ebraico se’â, che corrisponde a circa 13 litri di capacità. Si tratta quindi di una grande quantità di farina. Questa parola compare solo 6 volte nell’AT, e significativamente la quantità qui espressa equivale a quella usata da Sara in Gen 18,6, quando Abramo le chiede di impastare focacce per i tre misteriosi ospiti presentatisi alle Querce di Mamre.
La stessa espressione ricorre in 8,12 per indicare gli appartenenti al popolo dell’alleanza, Israele. Forse un segnale del fatto che nella comunità di Matteo non vi è ancora una frattura tra essere ebreo e essere discepolo di Gesù. Interessante notare che, diversamente dalla parabola del seminatore in cui i semi erano le parole del Regno, qui sono i figli di Israele a essere disseminati nel grande campo del mondo (cf. Mt 28,19-20).
Si potrebbe tradurre anche “compimento del tempo” questa espressione presente solo in Matteo in tutto il NT e caratteristica della letteratura apocalittica giudaica: sul piano semantico, sunteleia aiōnos (συντέλεια αἰῶνός) rimanda a qualcosa che completa quanto è già presente.
Questa immagine presa da Daniele 12,3 richiama anche il Cantico di Debora del libro dei Giudici 5,31. Secondo alcuni esegeti, la descrizione del volto di Gesù nella trasfigurazione raccontata da Matteo richiamerebbe queste parole, a dire che la sua trasfigurazione mostra già ora quale sarà la sorte di tutti i giusti.
Commento alla Liturgia
XVI Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Sap 12,13.16-19
13Non c'è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall'accusa di giudice ingiusto. 16La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. 17Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l'insolenza di coloro che pur la conoscono. 18Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. 19Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 85(86)
R. Tu sei buono, Signore, e perdoni.
Tu sei buono, Signore, e perdoni,
sei pieno di misericordia con chi t'invoca.
Porgi l'orecchio, Signore, alla mia preghiera
e sii attento alla voce delle mie suppliche. R.
Tutte le genti che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome.
Grande tu sei e compi meraviglie:
tu solo sei Dio. R.
Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà. R.
Seconda Lettura
Rm 8,26-27
26Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Vangelo
Mt 13,24-43
24Espose loro un'altra parabola, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: "Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?". 28Ed egli rispose loro: "Un nemico ha fatto questo!". E i servi gli dissero: "Vuoi che andiamo a raccoglierla?". 29"No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio"". 31Espose loro un'altra parabola, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami ". 33Disse loro un'altra parabola: "Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata". 34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. 36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: "Spiegaci la parabola della zizzania nel campo". 37Ed egli rispose: "Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente , dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!
Note
Approfondimenti
Questa espressione ricorre 7 volte nel cap. 13 e, poichè corrisponde all’uso antico della sinagoga, testimonia l’origine giudeo-cristiana della comunità di Matteo.
La parola basileia (βασιλεία) può esprimere diversi concetti, oltre a quello di “regno”: regalità, dominio, potestà regia, signoria. Per interpretarla correttamente occorre tenere conto del suo retroterra biblico, per cui significa che è Dio a governare “come” un re. Dunque l’accento è posto sulla relazione tra chi governa e chi è governato, e non su un concetto astratto di dominio o su un territorio sul quale questo dominio viene esercitato.
Il termine “cieli”, ugualmente molto importante per Matteo rispetto agli altri evangelisti, guida il lettore alla scoperta di un mondo possibile a partire dal mistero della realtà quotidiana, spesso intricato e difficile.
“Dalla fondazione del mondo” è un’espressione semitica che può implicare due concetti:
In qualunque modo si intenda l’inizio, ora viene tutto rivelato attraverso le parabole di Gesù.
Padrone della forza
Dopo averci iniziato ai misteri del regno dei cieli con la parabola del seminatore, questa domenica il Signore Gesù ci parla con «un’altra parabola» (Mt 13,24). Anzi, con tre potenti immagini in cui si manifesta il paradosso della «forza» (Sap 12,16) di Dio nella nostra «debolezza» (Rm 8,26). Tutte le parabole accendono in noi un’immediata e viva speranza. Eppure, la più intrigante e bisognosa di approfondimento è certamente quella del buon grano mescolato alla zizzania, perché affronta il delicato tema dell’evidenza del male in mezzo alla presenza certa del bene. Dio ha accordato alla creazione una certa libertà che non è revocata quando si cede all’inganno della menzogna e al fascino del male. La reazione dei servi — cioè la nostra — sorge spontanea:
«Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?» (Mt 13,27).
Dietro a questo disappunto, elegante e sincero, è possibile riconoscere la voce di un pregiudizio, una velata accusa a Dio di essere, tutto sommato, un «giudice ingiusto» (Sap 12,13).
In effetti — come già osservava l’autore del libro della Sapienza — Dio esercita il suo «potere» (12,18) e gestisce la sua «forza» (12,16.17.18) percorrendo vie che ai nostri occhi restano paradossali e a volte anche assurde. Invece di sbaragliare nemici e ribelli, egli, che è il «padrone della forza», sceglie di giudicare «con mitezza» e di governare ogni cosa «con molta indulgenza» (12,18). Mentre potremmo essere tutti molto contenti di questa modalità di gestire le persone e le situazioni, dobbiamo ammettere che ci appare molto debole e poco vincente questo modo di prendersi cura di «tutte le cose» (12,13).
Eppure, la mitezza di Dio non è per nulla un’impotenza o una fragilità di carattere, ma una scelta ben precisa: saper dominare la propria forza e indirizzarla verso sentieri di vita dove la speranza può tornare a fiorire per tutti:
«Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12,19).
La forza di Dio è quella dell’amore, che sempre si radica in un’incrollabile fiducia nella bontà seminata nell’uomo e sa esprimersi nella volontà di attendere i suoi tempi di maturazione, senza mai rinunciare a un’adesione libera e responsabile. Siamo noi, invece, a essere molto deboli e sciocchi, quando crediamo di poter rimuovere il male occultandone le tracce il più presto possibile: «E i servi dissero (al padrone): “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”» (Mt 13,28). La risposta non si fa attendere, ma soprattutto non si lascia fraintendere:
«No […], perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme» (Mt 13,29-30).
Dio non autorizza i nostri istinti di perfezionismo e di giustizialismo. Ci insegna ad avere pazienza, persino di fronte al manifestarsi delle tenebre in mezzo alla luce.
Questa pazienza che Dio ha nei nostri confronti è scandalosamente bella. Ed è l’unica, convincente spiegazione che noi discepoli possiamo stringere tra le mani di fronte all’oscuro scenario della vita quotidiana, dove il male sembra spesso prosperare di più e meglio del bene. Non sta a noi giudicare le cose che non vanno; a noi spetta solo il compito di essere buoni custodi della Parola, consapevoli che in mezzo a ogni vicenda umana il Padre ha posto il segno invincibile della croce di Cristo. Se c’è qualcosa che possiamo riconoscere con schiettezza è invece la «nostra debolezza», l’unico luogo dove ci «viene in aiuto» lo «Spirito» (Rm 8,26), il solo posto in cui siamo uguali a tutti gli altri, nostri fratelli. Soltanto la coscienza di quanta fragilità abita ancora in noi ci insegna a essere pazienti e a credere nella mite forza di un Padre che esercita il suo potere solo quando è tempo di farlo, insegnandoci in questo modo a essere indulgenti e amorevoli verso gli altri e anche verso noi stessi, ad «amare gli uomini» (Sap 12,19), attraverso la forza dello «Spirito» (Rm 8,27) che tiene viva dentro di noi quella «buona speranza» (Sap 12,19) che è anche dentro il cuore di Dio.
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