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È un verbo raro homeiromai (ὁμείρομαι), unica occorrenza nel NT, che esprime l’attaccamento appassionato dei predicatori del vangelo riprendendolo dal senso letterale di un “desiderare intensamente” proprio dei genitori verso i figli.
Il binomio kopos (κόπος) e mochthos (μόχθος) evoca la fatica e la pena inseparabili dal duro lavoro di chi non vuole farsi mantenere dagli altri. Il sostantivo kopos ricorre con frequenza nel corpo paolino: 10 volte sulle 18 totali del NT. Il sostantivo mochthos ricorre invece solo nell’epistolario paolino. In esso i due vocaboli si riferiscono sia al lavoro comune, sia a quello dei predicatori del vangelo o dei cristiani impegnati al servizio della comunità.
Il sintagma logon akoês (λόγον ἀκοῆς) è difficile da rendere in modo scorrevole. Alla lettera suona come “parola di ascolto, parola ascoltata”, in questo caso “fatta ascoltare”. Il sostantivo akoê, che ricorre 8 volte nell’epistolario paolino, nel contesto della proclamazione del vangelo è sempre associato alla fede. Nella formula logon akoês si condensano sia il senso attivo – il processo di ascolto della parola – sia il senso passivo, cioè il contenuto dell’ascolto. L’intera espressione potrebbe essere parafrasata “la parola fatta ascoltare da parte nostra, ma che deriva da Dio”.
Questa espressione può avere un senso metaforico e indicare l’autorità di chi insegna, come si dice, ex cathedra (kathedra, καθέδρα), e quindi riferirsi a Mosè, oppure un senso reale, perché in alcune sinagoghe, sebbene tardive rispetto al testo evangelico, vi erano seggi speciali per la presidenza dell’assemblea. Probabilmente, scribi e farisei sono descritti qui come coloro che non solo custodivano la Torah ma la trasmettevano nelle liturgie sinagogali. Il sostantivo phortion (φορτίον), “carico, fardello”, è lo stesso che Gesù definisce “leggero” in 11,30, riferendosi al “suo” peso. In senso proprio, il sostantivo significa “carico” della nave, mentre qui si parla dei pesi che derivano dall’osservanza della Torah. Forse la differenza tra il carico di Gesù e quello di scribi e farisei è che questi ultimi non aiutano la gente a portarlo, mentre Gesù condivide il “giogo” con chi si trova a portarlo. Il termine kathēgētēs (καθηγητής) ricorre solo qui in tutto il Nuovo Testamento, e significa “guida, tutore, precettore”. Il verbo diakoneō (διακονέω), da cui ha origine il sostantivo diakonos (διάκονος), nella maggior parte delle occorrenze in Matteo conferma il significato principale del verbo, quello di “servire a tavola”, ma Gesù amplia questo servizio fino a esprimere la più alta delle opere: la diaconia di Gesù, che riassume ciò per cui è venuto, è quella che arriva a dare la vita per il riscatto di molti (cf. 20,28).
Il sintagma logon akoês (λόγον ἀκοῆς) è difficile da rendere in modo scorrevole. Alla lettera suona come “parola di ascolto, parola ascoltata”, in questo caso “fatta ascoltare”. Il sostantivo akoê, che ricorre 8 volte nell’epistolario paolino, nel contesto della proclamazione del vangelo è sempre associato alla fede. Nella formula logon akoês si condensano sia il senso attivo – il processo di ascolto della parola – sia il senso passivo, cioè il contenuto dell’ascolto. L’intera espressione potrebbe essere parafrasata “la parola fatta ascoltare da parte nostra, ma che deriva da Dio”.
Questa espressione può avere un senso metaforico e indicare l’autorità di chi insegna, come si dice, ex cathedra (kathedra, καθέδρα), e quindi riferirsi a Mosè, oppure un senso reale, perché in alcune sinagoghe, sebbene tardive rispetto al testo evangelico, vi erano seggi speciali per la presidenza dell’assemblea. Probabilmente, scribi e farisei sono descritti qui come coloro che non solo custodivano la Torah ma la trasmettevano nelle liturgie sinagogali. Il sostantivo phortion (φορτίον), “carico, fardello”, è lo stesso che Gesù definisce “leggero” in 11,30, riferendosi al “suo” peso. In senso proprio, il sostantivo significa “carico” della nave, mentre qui si parla dei pesi che derivano dall’osservanza della Torah. Forse la differenza tra il carico di Gesù e quello di scribi e farisei è che questi ultimi non aiutano la gente a portarlo, mentre Gesù condivide il “giogo” con chi si trova a portarlo. Il termine kathēgētēs (καθηγητής) ricorre solo qui in tutto il Nuovo Testamento, e significa “guida, tutore, precettore”. Il verbo diakoneō (διακονέω), da cui ha origine il sostantivo diakonos (διάκονος), nella maggior parte delle occorrenze in Matteo conferma il significato principale del verbo, quello di “servire a tavola”, ma Gesù amplia questo servizio fino a esprimere la più alta delle opere: la diaconia di Gesù, che riassume ciò per cui è venuto, è quella che arriva a dare la vita per il riscatto di molti (cf. 20,28).
Commento alla Liturgia
XXXI Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Ml 1,14b-2,2b.8.10
14Maledetto il fraudolento che ha nel gregge un maschio, ne fa voto e poi mi sacrifica una bestia difettosa. Poiché io sono un re grande - dice il Signore degli eserciti - e il mio nome è terribile fra le nazioni. 1Ora a voi questo monito, o sacerdoti. 2Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni. Anzi le ho già cambiate, perché nessuno tra voi se ne dà premura. 8Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d'inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l'alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. 10Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro, profanando l'alleanza dei nostri padri?
Salmo Responsoriale
Dal Sal 130 (131)
R. Custodiscimi, Signore, nella pace.
Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me. R.
Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia. R.
Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre. R.
Seconda Lettura
1Ts 2,7b-9.13
7pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. 8Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. 9Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. 13Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.
Vangelo
Mt 23,1-12
1Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d'onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati "rabbì" dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate "padre" nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare "guide", perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.
Note
Approfondimenti
Il termine trophos (τροφός), “nutrice”, non ricorre in nessun altro testo del NT. Nella versione dei LXX si trova solo in tre testi, ma senza valenza teologica o religiosa. Il testo di Is 49,23 è di particolare interesse perché descrive la tenerezza di Dio in termini materni: “I re saranno i tuoi tutori, le loro principesse le tue nutrici”. Molti testi dell’AT esprimono il rapporto di Dio con il suo popolo con immagini paterne e materne. In questo testo, Paolo risalta il ruolo della madre che nutre, protegge e si prende cura dei figli che ha generato.
Questo è confermato dall’uso del verbo thalpō (θάλπω), che significa “riscaldare, prendersi cura, proteggere”. Nella LXX descrive l’atteggiamento della madre – uccello o struzzo – nei confronti delle uova o degli uccellini.
Il verbo kathizō (καθίζω) compare qui come un aoristo gnomico, di solito usato per sentenze e proverbi, e implica il fatto che i farisei sono ancora seduti, come se fosse un perfetto.
Questa non è un’affermazione critica, anzi rappresenta forse l’unica valutazione positiva del loro ruolo in tutto il vangelo. Anche studi recenti portano ugualmente a riabilitare i farisei e la loro ricchissima tradizione. In particolare, qui si descrive la correttezza del loro insegnamento, che anche Gesù riconosce. Vengono rimproverati, invece, perché non hanno una prassi corrispondente all’interpretazione che danno della Torah.
Infatti, diversamente da quanto comunemente di crede, l’esegesi farisaica della Scrittura non era letterale, ma cercava di adattare e rendere praticabili le norme della Torah. Tuttavia, come le parole di Gesù al v. 5 mostrano, i farisei si concentravano troppo su dettagli minimi, rischiando di perdere di vista il cuore della rivelazione di Dio.
Nell’ebraico biblico il termine rab (grande) appare soltanto in associazione ad altri nomi. Dopo la distruzione del Tempio, rabbì (ῥαββί) precede il nome dei maestri e così nelle fonti rabbiniche viene usato come appellativo assoluto per indicare il maestro di dottrina. I rabbì farisei si ritenevano depositari dell’interpretazione della Torah, utilizzando il titolo per designare il loro ruolo e le loro prerogative.
Al tempo in cui Matteo scrive il suo vangelo, il titolo di rabbì veniva probabilmente usato anche per definire gli scribi cristiani, forse conferito con una vera e propria investitura. Forse per questo Gesù proibisce ai discepoli di chiamarsi in questo modo – indicazione presente solo in questo vangelo – perché non diventi un modo per ricevere onori e potere.
Svezzati
Le parole centrali del salmo, che la liturgia di questa domenica assume come risposta adeguata alla parola di Dio contenuta nelle Scritture, offrono subito un baricentro interessante per orientare la riflessione e la preghiera della comunità dei credenti:
«Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (Sal 130,2).
L’atteggiamento di umiltà e di infanzia spirituale, contrapposto all’illusione del nostro cuore, che troppo spesso «si esalta», guarda «in alto», cercando «meraviglie più alte» e più «altre» rispetto a quello che il Signore ci sta donando nel presente, rischia però di essere accolto solo nella sua funzione lenitiva, anziché anche in quella orientativa. In parole più semplici, le parole del salmo potrebbero essere da noi accolte e pregate come una fuga dalla nostra realtà, invece che essere assunte come una tagliente proposta di conversione alla realtà di Dio. L’aggettivo con cui è descritto il bimbo che rimane placido nell’abbraccio di sua madre da un lato allude certamente a quell’esperienza che i cristiani vivono, da sempre, quando la carità di Cristo consente loro di essere attenti ai reciproci bisogni:
«(Fratelli) siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2,7-8).
Dall’altro lato, però, non dobbiamo sottovalutare il fatto che un bambino «svezzato» è una creatura che impara a separarsi dal «vizio» di un nutrimento troppo leggero, in favore di una dieta più consona e proporzionata alle nuove dimensioni della sua vita.
I vizi a cui la nostra vita può rimanere fatalmente – e mortalmente – incatenata sono messi a fuoco dalla prima lettura e dal Vangelo. Il profeta Malachia non esita a dichiarare ai «sacerdoti» del suo tempo, cioè alle persone che godono di una maggior prossimità all’autorità e alla sapienza di Dio, di essere entrate in una pericolosa ambiguità: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento (Torah)» (Mal 2,8). Anziché essere diventati, con le parole, ma soprattutto con la vita, un’istruzione utile alla vita del popolo, circa il dono dell’alleanza e la relazione con il Signore Dio, i sacerdoti si sono trovati a peccare di «parzialità» smentendo il volto dell’unico Dio e Padre di ogni cosa:
«Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?» (Mal 2,10).
Il Signore Gesù, nel vangelo, coglie tutte le profondità di questa radice velenosa e ambigua, proponendo ai suoi discepoli di seguire pure l’insegnamento di coloro che si sono «seduti sulla cattedra di Mosè (Mt 23,2)», ma di fare bene attenzione a non agire «secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (23,3). Il vizio a cui queste figure religiose sembrano essersi infantilmente affezionati è quello di non saper assumere in alcun modo le responsabilità di essere diventati padri nella fede per la vita degli altri. Per questo essi legano «fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (23,4). Al di là dell’evidente pigrizia presente in questa forma di immaturità, dobbiamo scorgere nel comportamento di scribi e farisei un vezzo assai pericoloso a cui il nostro cuore può legarsi, che coincide con l’illusione di poter continuare ad attingere il proprio essere dallo sguardo e dall’attenzione degli altri. Tutto ciò ha un risvolto molto semplice e quotidiano, perché non è altro che la cattiva abitudine di preferire indossare ruoli e sentirci chiamati e «ammirati dalla gente» – «rabbì», «padre», «guide» – anziché diventare così grandi da poter donare la nostra vita agli altri. La conclusione del Vangelo non è dunque un giudizio, ma una luce davanti a cui svezzare finalmente le fragilità del nostro cuore:
«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato (Mt 23,11-12).
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