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Il termine hypomonē (ὑπομονή) potrebbe anche tradursi con “attesa perseverante”, per esprimere l’atteggiamento di chi, nonostante le prove e le avversità del tempo presente, resta saldo nella speranza del compimento di Dio al suo disegno di salvezza.
Alla lettera, il testo dice “sappiamo bene… della vostra elezione”: il termine eklogē (ἐκλογή) ha le sue radici nella tradizione biblica, dove si parla di Dio che per amore ha eletto/scelto Israele. Nelle sue lettere, Paolo riserva questo sostantivo all’elezione “per grazia” dei patriarchi o di Israele da parte di Dio. Con questa categoria, perciò, i cristiani di Tessalonica sono assimilati a Israele, il popolo eletto e consacrato a Dio.
Per la prima volta in uno scritto cristiano compare il termine euaggelion (εὐαγγέλιον). Nei testi greci, come anche nei Settanta, il termine ricorre per lo più al plurale per indicare l’annuncio di eventi favorevoli. Il lessico “evangelico” prevale negli scritti paolini, dove si trovano 60 occorrenze sulle 76 del NT. Probabilmente, è con la sua attività missionaria che Paolo ha favorito l’uso cristiano di questo termine. Da tenere presente che “Vangelo” non indica uno scritto, ma l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù. Questa lettera ci offre quindi una testimonianza diretta della prima diffusione del Vangelo.
Letteralmente, l’espressione suona “non guardi verso il volto”, un semitismo che indica il giudizio imparziale che è prerogativa di Dio. In un tipico caso di “ironia drammatica”, sono gli stessi avversari che, conferendo a Gesù questo attributo, lo riconoscono simile al Padre.
Nella tradizione giudaica, l’apprendimento della Torah non è mai un fatto privato, ma avviene sempre con discussioni animate e molteplici domande, le cosiddette dispute. Pertanto, la domanda rivolta a Gesù sulla sua opinione, su “cosa ti sembra” (ti soi dokei, τί σοι δοκεῖ), è una domanda simile a quella con cui ci si sarebbe rivolti a qualsiasi rabbi a proposito di una questione riguardante la Torah. E Gesù stesso non ha alcun timore di far emergere le tensioni presenti nei testi sacri. Tuttavia, qui vi è qualcosa di più di una disputa di scuola, poiché farisei ed erodiani vogliono cogliere in fallo Gesù.
Questa formula tecnica, che ricorre altre sette volte in Matteo, sottende la domanda sulla giustizia di un comportamento rispetto alla Torah.
Commento alla Liturgia
XXIX Domenica Tempo Ordinario
Prima lettura
Is 45,1.4-6
1Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: "Io l'ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. 4Per amore di Giacobbe, mio servo, e d'Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. 5Io sono il Signore e non c'è alcun altro, fuori di me non c'è dio; ti renderò pronto all'azione, anche se tu non mi conosci, 6perché sappiano dall'oriente e dall'occidente che non c'è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n'è altri.
Salmo Responsoriale
Dal Sal 95(96)
R. Grande è il Signore e degno di ogni lode.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie. R.
Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli. R.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri. R.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine. R.
Seconda Lettura
1Ts 1,1-5b
1Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. 2Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere 3e tenendo continuamente presenti l'operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. 4Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. 5Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
Vangelo
Mt 22,15-21
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di' a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?". 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: "Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?". 21Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio".
Note
Approfondimenti
Per la prima volta è utilizzato il termine ekklēsia (ἐκκλησία) per parlare di un gruppo di cristiani.
Nel linguaggio amministrativo delle città greche l’ekklēsia è l’assemblea dei cittadini della polis che hanno diritto di prendere le decisioni.
Non è escluso che qui Paolo richiami anche la versione greca della Bibbia, dove con questo termine si traduce l’ebraico qehāl JHWH. Tanto il vocabolo ebraico quanto quello greco si rifanno al verbo “chiamare, convocare”.
Inoltre, la scelta di ekklēsia invece che synagōgê, che indicava le aggregazioni religiose ebraiche, potrebbe essere motivata dal fatto di voler distinguere il gruppo dei credenti cristiani.
Paolo unisce qui il saluto epistolare greco – charis, grazia – con il saluto biblico ebraico – šalôm, pace. Il termine charis è tipico dell’epistolario paolino, in cui ricorre 100 volte sulle 156 occorrenze totali del NT.
La combinazione dei due vocaboli nel saluto – charis kai eirēnē (χάρις καὶ εἰρήνη) – non ha precedenti nell’ambiente giudaico e greco, ma è tipica dell’epistolario paolino e potrebbe essere l’eco di formule liturgiche di benedizione delle assemblee cristiane.
Con il termine charis Paolo evoca l’iniziativa gratuita ed efficace di Dio Padre che, per mezzo di Gesù Cristo Signore, comunica il dono della pace. Nella pace sono racchiusi tutti i beni salvifici.
Il termine kopos (κόπος) è usato nella lettera per presentare l’impegno di Paolo per annunciare il vangelo ai tessalonicesi. Nelle lettere paoline, dove compare con lo stesso significato, si trovano 11 delle 18 ricorrenze del NT.
Il sostantivo agapē (ἀγάπη) predomina nell’epistolario paolino e designa l’amore del prossimo in tutte le sue articolazioni (a differenza del verbo corrispondente che è usato anche per indicare l’amore verso Dio). Dunque la fatica, che implica anche impegno duro e penoso, trae la sua forza dall’amore.
Si tratta del census (kēnsos, κῆνσος), la tassa pro capite imposta dai romani dopo l’occupazione della Palestina del 6 d.C. agli abitanti di Giudea, Samaria e Idumea dai 12-14 anni fino ai 65.
L’ammontare del tributo era di un denaro d’argento a testa, cioè la paga quotidiana di un lavoratore. Esisteva una moneta speciale per pagare questo tributo, che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio Cesare e l’iscrizione “Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).
Secondo un’interpretazione rigorosa del secondo comandamento (Es 20,4), una moneta recante un’immagine e l’iscrizione che divinizzava l’imperatore era considerata idolatrica. Ma né per Gesù né per i farisei questa moneta è un tabù, dal momento che il primo ne parla e i secondi ce l’hanno in tasca, confermandone già così la liceità.
Con il sostantivo hupokritēs (ὑποκριτής), Gesù di solito rimprovera scribi e farisei. Per Matteo, l’ipocrisia è un modo erroneo di porsi di fronte alla Torah.
A partire da Omero, infatti, il verbo krinō (κρίνω) significa “interpretare un testo/i sogni”, e solo successivamente passerà a indicare l’interpretazione sulla scena, tipica degli attori. Il significato di hupokritēs, quindi, non è relativo anzitutto alla falsità di un atteggiamento, ma a una modalità di interpretazione della Torah eccessivamente scrupolosa.
Tale atteggiamento diventa un peccato nel momento in cui porta a concentrarsi su pratiche sterili, perdendo di vista la sostanza della Torah. In questo versetto, il termine hupokritēs potrebbe essere tradotto anche con “simulatori”, perché Gesù scopre la malvagità di farisei ed erodiani, che vogliono indurlo in errore attraverso le lusinghe iniziali (v.16).
Gesù risponde alla provocazione applicando una logica paradossale, che rimane un po’ misteriosa per noi oggi.
Restituire (apodidōmi, ἀποδίδωμι) a Dio quel che è suo è una limitazione di quanto occorre restituire a Cesare, al quale non spetta tutto, sicuramente non la divinizzazione.
Questo tipo di risposta è congeniale alla mentalità farisaica: obbedire a Cesare nell’ambito del governo e dell’amministrazione civile significa obbedire anche a Dio; ma negli ambiti in cui Dio ha fatto conoscere la propria volontà, cioè attraverso la Torah, occorre obbedire a Dio piuttosto che a Cesare.
Inoltre, per un credente, restituire a Dio ciò che gli appartiene è un altro modo per dire come lo si debba amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutti i propri averi. Dunque, l’ultimo criterio per ogni “dare” rimane Dio.
Tutto a/di Dio
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